Mahler, genio dell’inattuale
Carteggi In 237 lettere, scritte fra il 1880 e il 1911, l’estetica viennese tradotta in termini musicali. Fra i destinatari, Strauss,Walter, Schönberg, Busoni, Bruckner: «Caro maestro» dal Saggiatore
Carteggi In 237 lettere, scritte fra il 1880 e il 1911, l’estetica viennese tradotta in termini musicali. Fra i destinatari, Strauss,Walter, Schönberg, Busoni, Bruckner: «Caro maestro» dal Saggiatore
«Mi dico spesso, mi dico ogni giorno: no, non si può più vivere a Vienna, via! Qui non esiste neanche una dozzina di persone che abbiano una sensibilità più o meno europea. E dietro loro, non c’è nulla; il caos. Ma poi, Klimt dipinge un nuovo quadro. Poi, Roller rinnova il Tristano o il Fidelio, Mahler dirige, la Mildenburg canta. E allora mi dico: non posso vivere da nessuna parte come a Vienna, vivere ciò che per me è la vita». Così, nel 1905, Hermann Bahr – scrittore e commediografo, anima del gruppo culturale «Jungwien» e firma illustre della rivista letteraria «Neue Runschau» – sintetizzava il carattere contraddittorio di una capitale imperiale.
Cresciuta in fretta sotto Francesco Giuseppe, Vienna diventò punto di riferimento per artisti eccellenti di ambiti diversi; eppure – come annota Alex Ross nel suo libro Il resto è rumore – la prima città d’Austria non sembrava in grado di esibire la modernità «frenetica e rumorosa» di Berlino, proponendosi piuttosto come «un luogo più lento, in scala minore, un idillio in stile imperiale»: era un limite, ma anche parte del suo fascino. Fu in quella Vienna così poco «europea» che visse e lavorò Gustav Mahler, direttore d’orchestra tra i più famosi e richiesti della propria generazione, compositore tormentato e geniale, operatore culturale attivissimo, capace di conciliare i suoi tre ruoli non soltanto con titanico impegno ma con una abilità manageriale inusitata per i tempi e, a dispetto del contesto, proiettata ben oltre gli spazi rassicuranti della felix Austria.
Naturalmente incline a disertare convenzioni e cliché, Mahler finì col riconoscere a se stesso, evocando Nietzsche, una natura orgogliosamente «inattuale». Salvo aggiungere, con enfasi biblica: «Verrà il tempo in cui gli uomini vedranno il grano separato dalla pula, e verrà anche il mio tempo. Quando il suo sarà finito». Quel «suo» era riferito a Richard Strauss, amico-rivale di una vita, che aveva scelto di vivere nella frenetica Berlino.
Proprio sulla triplice vocazione di Mahler – compositore, direttore d’orchestra, direttore artistico – si concentra il bel libro appena edito da il Saggiatore con il titolo Caro collega (traduzione di Silvia Albesan, pp. 438, euro 42,00), in cui sono raccolte duecentotrentasette lettere autografe – indirizzate a musicisti, dirigenti di teatro, critici musicali – scelte da Franz Willnauer, biografo del musicista, tra gli oltre cinquemila oggetti di corrispondenza, reperiti e pubblicati, che in un secolo hanno contribuito a fare luce sulle vicende della vita e dell’arte di Mahler.
Mentre lo storico epistolario curato da Alma Schindler nel 1924 si tuffa volentieri nel coté privato, e la successiva, ingente revisione portata a termine da Herta Blaukopf emenda con meticolosa precisione il lavoro dell’affascinante vedova del compositore, Caro collega (la cui prima edizione è uscita, in Austria, nel 2010) ha il pregio di focalizzare l’attenzione su Mahler in quanto uomo pubblico, sulla sua capacità professionale di tessere rapporti con i grandi teatri del mondo e con molti illustri esponenti del panorama musicale.
Inoltre, essendo ogni lettera accompagnata da precise note riferite alle circostanze e ai personaggi che vi compaiono (destinatari e non solo) il percorso epistolare viene restituito al suo contesto e l’orizzonte di lettura si allarga ben oltre l’aspetto personale, comunque stimolante, inducendo riflessioni storico musicali, e di costume. Del resto, il materiale si presta allo scopo: tra i destinatari delle lettere compaiono, infatti, personalità del calibro di Strauss e Schönberg, Dvorák e Busoni, Bruckner e Bruno Walter, Cosima Wagner e Hans von Bülow.
Catalogate in ordine cronologico, dal 1880 al 1911, le lettere sono riconducibili a fasi ben determinate della carriera di Mahler: i primi incarichi prestigiosi a Praga, Lipsia, Budapest e Amburgo, quindi l’ascesa alla più gloriosa istituzione musicale del mondo, l’Opera di Corte di Vienna, e infine la significativa esperienza consumata negli Stati Uniti.
Tra le righe si colgono gli affanni del compositore, intento a diffondere la propria musica, e quelli del direttore artistico intelligente, curioso, aperto alla novità – quelle che venivano da Strauss e Schönberg, ma anche da Wagner – ma soprattutto inflessibile. Ogni scelta di Mahler, infatti, sembrava andare nel segno del rispetto assoluto dell’opera d’arte e della massima efficacia raggiungibile nella sua divulgazione.
La ricerca di interlocutori illustri, la premura con la quale l’autore delle lettere scava in qualsiasi piccolo dettaglio di allestimento, artistico ed economico, l’intolleranza palesata nei confronti della chiassosa e imperversante claque viennese, persino la sicurezza con la quale Mahler si espose alla candidatura di posizioni prestigiose, sottintendono l’enorme consapevolezza delle proprie potenzialità e delle forze in campo finalizzabili al raggiungimento del miglior esito musicale.
Arrivato all’Opera di Vienna, prima come Kapellmeister, poi come direttore musicale, al culmine di un laborioso lavoro diplomatico testimoniato dalle numerose lettere datate 1897, Mahler prese casa non lontano dal Ring, incontrò Alma e la sposò, suscitando l’ammirazione di molti intellettuali, fra i quali Kraus e Schnitzler; ma preferì frequentarne pochi. Tra gli eletti, Gerhart Hauptmann, cliente abituale di quell’Hotel Sacher che, in quanto simbolo cultural mondano della città, sarebbe stato sempre poco amato da Mahler. La conquista di Vienna, già percorsa in quel tempo da fremiti antisemiti destinati a radicalizzarsi tragicamente, passava attraverso la quasi inevitabile conversione al cattolicesimo, che l’aspirante direttore dell’Opera, ebreo non devoto, avrebbe rivendicato a sé come esigenza morale e intellettuale. Di fronte alla notizia, Richard Strauss – poco incline alla spiritualità – restò scettico. Del resto, quella strana ossessione di Mahler per il concetto di redenzione, non l’aveva mai capita fino in fondo. «Personalmente, non so davvero da cosa dovrei essere redento», confidò Strauss, un giorno, al collega Otto Klemperer.
In una città «estetizzata fino al midollo» e in cui – come scrive Ross – «tutto era costretto a risplendere», Mahler si fece carico di tradurre in termini musicali formidabili, e usando come cassa di risonanza il teatro più importante dell’epoca, il fasto del momento storico. Lo fece, ad esempio, coinvolgendo nell’impresa il pittore Alfred Roller, cui affidò la cura della cifra estetica degli spettacoli in programma, con lungimiranza da uomo di teatro brillante. Ma lo fece anche evitando di chiudere gli occhi davanti ai mutamenti di ogni tipo che agitavano le vie di Vienna e la Mitteleuropa all’alba del secolo breve: Schönberg andava immaginando un’altra musica, l’attualissimo Strauss destava scandalo con «Salomè», l’Impero scricchiolava e le crepe comparivano, insinuanti, sulle superfici dorate fissate da Klimt.
Calato consapevolmente in quel tempo che, in qualche misura non gli apparteneva, Mahler lo percorse con sensibilità e acuto rispetto, mettendone in rilievo tanto i fasti quanto le ambiguità.
Il 7 dicembre 1907 scrisse ai membri dell’Opera di Corte di Vienna: «È giunta l’ora che sancisce la fine della nostra collaborazione. Prendo commiato dalla bottega che mi è divenuta così cara, e Vi dico addio. Invece di qualcosa di completo, concluso, come avevo sognato, lascio dietro di me imperfezione, incompiutezza: come è destino dell’uomo». Mahler era atteso dal Metropolitan di New York, con il quale aveva firmato un contratto faraonico. È probabile che il risvolto economico abbia avuto un peso decisivo nella sua risoluzione, ma Mahler era comunque stanco del clima politico viennese, condito da intrighi e diffusa insofferenza razziale. Stando a quanto avrebbe scritto Alma molti anni dopo, negli Stati Uniti il compositore divenne ostaggio di «ricche signore», ovvero di alcune indispensabili mecenati capaci di trattarlo come «un bambolotto».
Forse c’è della esagerazione, ma non è un caso che la prima esecuzione dell’Ottava Sinfonia, per la quale – come dimostrano le lettere contenute in Caro Maestro – Mahler dovette adoperarsi molto, sia avvenuta nel cuore della vecchia mitteleuropa. Questo non significa, tuttavia, che l’America non gli offrisse nuovi spunti d’interesse, molti dei quali destinati a venire rielaborati in quella Decima Sinfonia rimasta, invece, incompiuta: incompiuta, appunto, come «il destino dell’uomo».
La passione per Puccini, l’ostilità nei confronti di Leoncavallo, la scoperta di Edgard Varèse, l’amicizia con Casella sono aspetti che aggiungono spessore musicale all’articolata vicenda musicale di Mahler restituita da questo libro, che offre sistematiche contestualizzazioni al carteggio di un artista difficilmente comprensibile se separato dalla sua complessa cornice storica e culturale.
Quando, alla fine del 1907, il musicista lasciò Vienna alla volta di New York, trovò alla stazione duecento persone a salutarlo e a offrirgli ghirlande di fiori. Tra la folla, anche Roller e Schönberg. E c’era Klimt, che subito dopo scrisse: «È finita!». Un’altra epoca stava per aprirsi, non solo per la musica.
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