Magici e visionari, la catastrofe con il senno di poi
A New York, Neue Galerie, "Before the fall" Arte fra Vienna e Berlino dal 1925 all’Anschluss: Olaf Peters contro l’idea «benjaminiana» di leggervi i segni premonitori del disastro nazista e per una riconsiderazione critica di valori e figure particolari
A New York, Neue Galerie, "Before the fall" Arte fra Vienna e Berlino dal 1925 all’Anschluss: Olaf Peters contro l’idea «benjaminiana» di leggervi i segni premonitori del disastro nazista e per una riconsiderazione critica di valori e figure particolari
La dinamica programmazione della Neue Galerie, aperta al pubblico nel 2001 per volontà di Ronald S. Lauder, è uno dei motivi che qualifica l’elegantissimo museo sull’86esima fra le tappe irrinunciabili lungo l’arteria del Museum Mile.
Se ci si limita a consultare il calendario delle mostre trascorse, l’elenco si conferma infatti ingombro di eventi nel rispetto di una concatenazione mai pausata. Tale inventario è andato inoltre arricchendosi con grande coerenza attorno al focus tematico dell’arte ‘germanofona’ a cavallo di Otto e Novecento; e, mentre titoli come Wiener Werkstätte o Klimt and the Women of Vienna trovano una giustificazione nelle collezioni della galleria, altri progetti sono stati immaginati con in mente fili conduttori più sottili, componendo catene concettuali di notevole pregnanza.
È il caso di Before the fall sulla produzione artistica fra Vienna e Berlino dal 1925 alla Seconda Guerra Mondiale, percorso pensato come ideale conclusione per il ciclo comprendente Otto Dix, Degenerate Art e Berlin Metropolis, sempre per cura di Olaf Peters.
Arruolato all’università di Halle-Wittenberg, lo studioso è giunto pertanto a quest’ultima impresa dopo una longeva collaborazione con l’istituzione newyorkese, avendo offerto una prospettiva organica sulla cultura figurativa sospesa fra la repubblica di Weimar e il progressivo trionfo dell’ideologia nazionalsocialista: stavolta l’attenzione si è spostata invece sul panorama austriaco, per il quale il confronto con la vicina Germania è servito piuttosto da controcanto.
L’esposizione ha chiuso le porte già lo scorso 28 maggio, affogata dal polifonico carnet primaverile che ha animato l’intricato reticolo di Manhattan con una stagione ingombra di proposte. L’allestimento concepito da Richard Pandiscio e William Loccisano, insieme stringente e d’effetto, si caratterizzava per coups de théâtre di efficacia drammatica e, soprattutto per la scansione precisa delle sezioni, rispettosa di giudiziosi apparentamenti, in spazi che devono fare i conti con le pretese altoborghesi – e tuttavia metropolitane – della palazzina firmata nel 1914 da Carrière & Hastings: in particolare, riuscite erano le sale dei ritratti e delle nature morte, propizie a incontri inattesi, in primis quello coi rebus enigmatici di Rudolf Wacker la cui oeuvre – nonostante una monografica nel ’93 – meriterebbe nel suo complesso un’articolata rivalutazione.
Rimane comunque il catalogo, stampato da Prestel con dispiego di mezzi; e, sebbene l’indice tradisca una struttura meno limpida di quella concepita per accogliere il visitatore (confuse sono la scansione dei profili degli artisti e la sequenza delle tavole a piena pagina), il ragionamento imbastito da Peters coi suoi collaboratori articola nuclei tematici di lampante evidenza, argomentati col ricorso a immagini estranee a un canone manualistico.
È ad esempio palese come il periodo compreso fra il 1925 – anno di uscita del Nach-Expressionismus: Magischer Realismus di Franz Roh, per il curatore un dirimente punto di svolta critico – e il 1938 – quando l’Anschluss dell’Austria venne ratificata da un plebiscito – sia affrontato nei termini di un’‘aporia temporale’, sia rispetto ai trend intellettuali caratteristici dell’epoca sia nei confronti della ricezione critica successiva.
Non a caso il libro si apre sul capolavoro di Paul Klee, l’Angelus Novus, sottolineandone la celebre interpretazione benjaminiana. Per Peters infatti l’autorevolezza di un simile testo ha contribuito a inserire l’arte tedesca (e austriaca) fra le due guerre negli schemi di un rigido teleologismo, proiettando gli spettri di un futuro catastrofico sui tempi appena precedenti, a rischio di tradurli in mere premesse: non a caso a quest’icona (e a una lettura tanto fondamentale per la riflessione odierna) il volume contrappone il lirico Ange du foyer di Max Ernst, eseguito nel 1937, con le sue forme vagolanti e caotiche, eccentriche e indecidibili. Il catalogo chiarisce inoltre quanto un fraintendimento siffatto possa esser stato avallato dall’insistenza sulla figura dell’«artista visonario», esercitata da parte di nomi fra cui Karl Hofer, Rudolf Schlichter, Hans Grundfing (ma anche, in parte, da Otto Dix). Si tratta di un ennesimo cortocircuito temporale: il mito del ‘creatore profeta’ è infatti un legato del Romanticismo tedesco, ravvivato nel Novecento dall’esercizio di uno sguardo retrospettivo volto alla tradizione nazionale da Dürer a Runge. In questo senso eloquente è la menzione delle tele di Richard Oelze e Franz Sedlacek – Erwartung e Bibliothek, per esempio – fra le espressioni caratteristiche di quel momento: la loro inquietante consistenza, i riferimenti fantastici delle composizioni chiariscono infatti il portato universalistico e astraente di un simile filone, da misurare sulle circostanze biografiche di ogni personalità e vicino, in generale, a istanze surrealiste o metafisiche.
In questo senso spiace semmai che nell’accenno a un afflato spiritualistico, misterioso e indeterminato, per i quadri di questi e di altri contemporanei (Karl Völker, Josef Scharl, Wilhelm Traeger), una specie di squarcio ‘magico’ nel tessuto analitico della Nuova oggettività (giubilata nel 1925 grazie alla selezione celebrativa raccolta a Mannheim da Gustav Friedrich Hartlaub), manchi proprio una disamina approfondita delle fonti ‘europee’ risonanti di un’analoga ispirazione (in particolare di quelle nostrane). È noto ad esempio che a Monaco Hans Golz godesse dell’esclusiva per la diffusione in Germania di «Valori Plastici», ottenuta poco dopo la creazione della rivista; ed è altrettanto risaputo che nel 1921 si fosse inaugurata a Berlino la collettiva Das junge Italien: il volume curato da Peters non offre però piste per tracciare la conoscenza di tali linguaggi anche su suolo austriaco. Tuttavia i manichini di Wacker non sarebbero pensabili senza i precedenti di Carrà o Casorati; e De Chirico non avrebbe forse disprezzato il motto rivolto da Franz Matzke alla gioventù di lingua tedesca nel suo Jugend bekennt: So sind wir! del 1930: «tipico della nostra età … è un ingegnere che sfoglia cartelle di incisioni di Rembrandt».
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