Ubi Fluxus Ibi Motus è il titolo, folgorante, della mostra che nell’ormai lontano 1990 Achille Bonito Oliva, con la complicità di Gino Di Maggio e di Gianni Sassi, aveva proposto negli ex granai alla Giudecca in occasione della Biennale di Venezia. Una rassegna indimenticabile, costruita con una cronologia rovesciata – dal presente al 1962, anno del primo Fluxus Internazionale Festspiele Neuester Musik, senza dimenticare le premesse d’avanguardia (Duchamp, encore) – in cui oltre cento artisti erano stati convocati in opere e soprattutto in azioni per riattivare l’inafferrabile senso di un’esperienza, Fluxus, che senza dubbio è «la più proteiforme attività espressiva di produzione di significato del Novecento».

Né movimento né tendenza, sicuramente non uno stile, Fluxus più che «un’organizzazione, è un’idea, un modo di vivere, un gruppo di persone non fisso che fa fluxlavori» che non sono (tanto) opere quanto performance e gesti di fuga dall’utile. Chi si è riconosciuto, per un momento o per la vita, in Fluxus ha inventato oggetti patafisici, ha immaginato impossibili paesaggi di suoni e di odori, soprattutto ha «concertato mondi», come ebbe a scrivere Tommaso Trini, che in Italia è stato tra i lettori più precoci e attenti delle irridenti liturgie con cui i (non)artisti Fluxus hanno dato provvisoria e potente forma all’eteroclito, all’incongruo, al diverso, muovendosi tanto inquieti quanto baldanzosi al confine, mai veramente tracciato, tra l’illogico e l’alogico. Era, e forse è ancora, uno scorrere incessante – Fluxus, come modo di lavorare e di pensare esisteva prima ed esisterà dopo Fluxus –, un’agitazione e un moto di trasformazione (Ubi Fluxus Ibi Motus, appunto) che ha reso sbilenchi e irresistibili i corpi e le invenzioni dei tanti che si sono ritrovati coinvolti in questa pratica impertinente ed eterodossa (tra gli altri, Georg Brecht, Charlotte Moorman, Dick Higgins, La Monte Young, Yoko Ono, Nam June Paik, Ben Vautier, Joseph Beuys, Giuseppe Chiari, giusto per citare in rigoroso disordine qualche nome). Un flusso, «un continuo susseguirsi di cambiamenti» che ancora si mostra vibrante ed eccedente negli scritti di George Maciunas.

Artista, storico dell’arte, gallerista, musicologo, progettista, architetto, redattore, produttore, tipografo, designer, impresario, matematico, Maciunas è nella instabile galassia Fluxus una stella luminosa e sulfurea, un papa tanto rispettato quanto sconfessato. Insomma Maciunas sta a Fluxus come Breton sta al Surrealismo. Nel corso della sua breve e certo intensissima vita – nato nel 1931 a Kaunas, in Lituania, Maciunas è morto nel 1978 negli Stati Uniti, dove la sua famiglia si era trasferita dopo la seconda guerra mondiale –, l’artista non ha soltanto progettato e realizzato festival, oggetti e concerti, ha trovato anche il tempo, per fortuna, di affidare idee e polemiche alle pagine di lettere e manifesti, di redigere programmi e testi teorici, soprattutto di stilare fantastici elenchi, dove quella vertigine della lista della quale Umberto Eco ha fatto anni fa una mostra e un libro si manifesta nella sua versione più sfrenata e divertente.

«a) Fluxtoilet (variazioni sui temi: sciacquone, sedute, porta dei box, lavandini, specchi, carta igienica, asciugamani)

b) Distributori automatici, distributori di bevande, cibo, tipo distributori di noccioline (distributori di colla, filo continuo, reliquie sacre, bevanda prima della tazza, o tazza forata ecc.)

c) Macchine per francobolli e cartoline, macchine da gioco a gettone (flipper, bersaglio, esame da guida ecc.)…….», e così via, fino alla lettera K, passando per la stanza del suicidio di Ben Vautier e gli armadi per persone di Bill Tarr: quello che qui Maciunas descrive con analitica precisione è il piano per il Flux-Amusement- Center proposto nella Fluxnewsletter edita nell’aprile 1973. È solo un esempio, uno dei tanti possibili, del ritmo incalzante, persino delirante che caratterizza gli scritti di Maciunas, di cui una selezione efficace è adesso edita a cura di Patrizio Peterlini e Angela Sanna nella benemerita collana «Carte d’artisti» di Abscondita (pp. 189, e 22,50).

Alcuni scritti di Maciunas – i manifesti, specialmente – erano in effetti già stati pubblicati in Italia, raccolti in cataloghi e antologie, ma questa edizione è la prima a offrirne un corpus significativo, accompagnandolo con un apparato critico che tenta l’impresa, davvero impossibile, di chiarire gli infiniti nessi, le tante relazioni, i rapporti e gli incontri di cui i testi restituiscono scintille, cenni, frammenti talvolta taglienti: «Vostell nel suo merdoso Decollage ha rovinato Paik», si legge in una lettera a Roger Watts, storico dell’arte e artista che a Fluxus era approdato dopo esperienze legate alla pop art.

Non mancano naturalmente sonore scomuniche e rotture («TOMAS SCHMIT È STATO ESPULSO ED ESAUTORATO DA FLUXUS»), così come non sono rare le accuse di personalismo, di opportunismo e di tendenze competitive mosse a questo o a quel compagno di strada ( Paik è fra i bersagli preferiti). Maciunas non risparmia neppure i grandi nomi della scena culturale internazionale: è del 1964 l’azione contro l’imperialismo culturale che aveva come protagonista Stockhausen e la sua «musica di corte», per il fluxartista giusto una «decorazione per i capi della Germania occidentale».

Quella di Maciunas è una militanza radicale che rivendica per l’arte Fluxus lo statuto di «arte-divertimento», un’ arte cioè che non deve «avere valore commerciale o istituzionale», che deve essere semplice, raggiungibile da tutti e, infine, fatta da tutti, perché, come dirà Beuys, ogni uomo è un artista. Contro lo snobismo dell’avanguardia (il riferimento è l’avanguardia formalista messa in vetrina dal MoMA), l’arte Fluxus è retroguardia senza pretese o sollecitazioni, è «la fusione tra Spike Jones, vaudeville, gag, giochi per bambini e Duchamp». Un gioco serissimo, naturalmente, che non si sottrae al conflitto, anche duro, con le istituzioni: Maciunas, che senza volere ha fatto di Soho il quartiere delle gallerie promuovendo l’occupazione di edifici dismessi da parte degli artisti e innescando così un irreversibile processo di gentrificazione, ha pagato in prima persona la sua «utopia collettivista»

Tra le pagine più sorprendenti di questi scritti Fluxus ci sono quelle che riproducono le lettere inviate al procuratore generale dello stato di New York in cui Maciunas mette alla berlina i comportamenti coercitivi di cui è vittima a causa dei suoi interventi di «spontanea» riqualificazione urbana (Fluxhouse. Progetto per un condominio di artisti a New York City).

L’artista combatte dalla sua Fluxfortezza usando un arsenale di ironia e «travestimenti vari (maschere da gorilla, testa fasciata, maschera antigas ecc)», mobilitandosi contro un’indagine che gli sembra «un uomo bendato che fa oscillare una grande mazza in una strada e colpisce lampioni, idranti, gatti, cani, auto parcheggiate, finestre e talvolta un passante».

Alla fine, neppure la sua fortezza riuscirà a proteggerlo e così, perso un occhio in un pestaggio per debiti, Maciunas proverà a rinnovare i fasti della Bauhaus e del Black Mountain College recuperando un complesso di dodici edifici nel distretto di New Marlborough.

Di quel progetto restano poche note, i nomi dei docenti e un sottinteso modello, il villaggio voluto a Ivrea da Adriano Olivetti, imprenditore illuminato a cui Maciunas, profetico costruttore di Learning Machine, ha dedicato uno dei suoi concerti per metronomo e nastro della macchina calcolatrice.