Visioni

Maciste veste in smoking

Maciste veste in smoking«Helena. Der Untergang trojas» (cortesia Filmmuseum München), sotto dettaglio dal flano:«Der Unuberwindliche» (1928) (cortesia The Hague Municiapal Arc)

Festival Nel programma delle Giornate del cinema muto il recupero di una serie di film sui forzuti italiani, assai popolari nella Germania di Weimar, curata da Ivo Blom

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 6 ottobre 2015

Mentre si vanno smorzando gossip congetture e complottismi fantasiosi sulla abdicazione di David Robinson in favore di Jay Weissberg alla direzione delle Giornate del cinema muto (3-10 ottobre), «accettata» con la perplessità attendista con cui sono state accolte le nomine di esperti stranieri a dirigere musei italiani, sono i film in programma a consentire il recupero di un sano «Italian pride» con la serie sui forzuti italiani, assai popolari nella Germania di Weimar. La presenza in parallelo nel programma di alcuni dei film diretti da Victor Fleming con Douglas Fairbanks versione acrobatico-avventurosa e del restaurato Maciste Alpino, permette inoltre una lettura comparata di questi tre formati simili, riconsiderando la forza espressiva che nel muto assumeva un uso così articolato e spettacolare del corpo.

La sezione «Forzuti italiani-Muscoli italiani in Germania» curata dall’italianista olandese Ivo Blom ha piacevolmente spiazzato il pubblico mutologo per la qualità dell’immagine e della produzione e per la competenza, non solo acrobatica, dei protagonisti Luciano Albertini e Carlo Aldini, impegnati in avventure seriali, tra inseguimenti, salvataggi e fughe all’ultimo decimo di secondo, che includono tregue amorose, un pizzico di ironia e talvolta anche qualche inattesa virata nell’avanguardia artistica. I due atletici eroi, come il Maciste post Cabiria, non mettono in mostra un petto muscoloso e bicipiti formidabili, ma vestono in smoking e anche quando si liberano delle catene, come Albertini in Il globo infuocato (applauditissimo anche per l’ottimo accompagnamento musicale della Zero Orchestra) lo fanno più con la destrezza di Houdini che con la forza scimmiesca di altri eroi forzuti del passato ma anche del presente.

Non a caso Albertini, quando la crisi del cinema italiano muto si era fatta irreversibile, nel 1924, (e quando il fascismo si era fatto regime?) si sposta negli Stati uniti per interpretare la serie Iron Man, ma appena scopre di non esserne protagonista fa le valigie e torna in Europa, o meglio in Germania, dove si stanno concentrando artisti tecnici e filmmakers da ogni dove. Sono gli anni di Weimar e di un ribollire di esperienze artistico-culturali certamente cosmopolite, in cui questi italiani si piazzano molto bene: tra l’altro Mister radio (1924) è stato diretto da un ottimo Nunzio Malasomma, a conferma che allora l’Europa c’era davvero e la Germania faceva scuola, tecnicamente, più di Hollywood. Per gli attori naturalmente il muto semplificava le cose perché non erano richieste competenze linguistiche per recitare in un film, ma la presenza di operatori italiani (Eduardo Lamberti) oltre ai registi, segnala uno scambio transnazionale che, associato alla successiva esperienza delle versioni europee dei film Paramount girate a Joinville, costituì un aggiornamento professionale degli italiani all’estero che spiega la rinascita del cinema nazionale negli anni Trenta non come un miracolo del regime ma come il perenne riciclarsi di questa araba fenice che è il cinema italiano.

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Avvenente e mediterraneo Albertini diventa in Germania una star per via dei suoi stunt, legati all’esperienza da acrobata di circo. In Mister radio per esempio, è un inventore solitario che vive in cima a una montagna a strapiombo su un fiume. Legato ad un albero davanti alla sua torre in fiamme, invece che liberarsi dalle corde come ti aspetteresti dal suo personaggio, per gradi riesce a svellere dal terreno le radici dell’albero e a slanciarsi con esso in una gola profondissima dove su uno spuntone è caduta la sua fidanzata. Appeso ancora all’albero che intrappolato con le radici tra i costoni rocciosi lo trattiene, riesce a recuperare la ragazza compiendo formidabili salti nel vuoto in campo lungo – quindi senza inganno – e facendo leva su un altro flessibile alberello si porta in salvo, fanciulla compresa.

Peccato che poi Albertini abbia pagato gli eccessi di alcol e stravizi berlinesi finendo i suoi giorni in manicomio. Proprio di muscoli come simboli nazionali maschili ha parlato Jackie Reich, presentando The Maciste Films of Italian Silent Cinema, un volumone illustrato e molto documentato su Maciste, in uscita per l’Indiana University Press con il supporto del museo del cinema di Torino, che sta restaurando i numerosi film di questo popolarissimo (anche negli Stati uniti) interprete, considerato l’unica star maschile del muto italiano – in quanto il Divo Massimo voleva rimanere Mussolini. Al quale Duce Bartolomeo Pagano, massiccio scaricatore di porto, assomiglia e cui ispira alcuni dei gesti (come il cipiglio severo a braccia conserte).

Questo Maciste eroe del popolo (mentre gli altri forzuti sono evidentemente dei borghesi) è stato proposto con il restauro dello spettacolare Maciste Alpino, che rientra nella sezione dedicata dalle Giornate all’anniversario della prima guerra mondiale, che include tra gli altri alcuni documentari di grande impatto sia drammatico che visivo, firmati da Luca Comerio. Come nella serie dei forzuti i film di Maciste sono un ibrido di generi diversi, dal giallo al comico all’avventuroso, ma ciò che è significativo è lo scarto razziale tra il primo Maciste, di colore in quanto schiavo numida, velocemente sbiancato e vestito con abiti moderni e posto al centro di una meta-comunicazione talvolta ironica e di una cultura non becera nei film successivi. I restauri e gli studi documentali hanno permesso di scoprire che il celebre Maciste all’inferno non solo si ispirava a Dore nelle a parte visiva ma le didascalie erano scritte in terzine e nascondevano qualche interessante spunto politico.

Definito in America il «Douglas Fairbanks italiano» il Maciste seriale si propone come una forza dinamica che mette ordine nelle cose e risolve problemi, proprio come l’eroe americano per eccellenza, Douglas Fairbanks che si dondola alle corde e salta da una roccia all’altra come Albertini, nei due film di Fleming visti finora, When the Clouds Roll By (1919) in cui deve salvare una fanciulla dalle nozze con un imbroglione che vuole fregare le concessioni petrolifere del padre, il tutto però all’interno di un complotto in cui uno psicanalista condiziona i suoi comportamenti, sfruttandone la superstiziosità patologica, ma finendo poi per rivelarsi, come nel Gabinetto del dottor Caligari, il vero pazzo. In The Mollycoodle (1920) un’avvenente agente dei servizi segreti in gonnella cerca di smascherare un contrabbandiere di diamanti interpretato con la sua naturale minacciosità dal corpulento Wallace Beery. Anche qui come nei film scritti per lui da Anita Loos, Fairbanks lancia strali contro alcuni vezzi della mentalità coeva (psicanalisi, dinamismo fasullo dei giovani americani) per esempio quando discute la definizione di civiltà paragonando i musicisti indiani hopi a uno scatenato batterista jazz e i ballerini pellerossa ai danzatori di balli moderni. Facile ironia se vogliamo ma anche un debole tentativo di riconsiderare dall’interno il mito America, di cui era un potente simbolo.

In appendice un altro colpettino all’Italian pride: la sezione sul cinema argentino delle origini che ribadisce il ruolo degli italiani hanno avuto nella creazione del cinema latinoamericano, con il lavoro del documentarista e produttore Federico Valle che racconta in piena goduria tabagista il lavoro in una fabbrica di cigarilli, l’animazione di Quirino Cristiani e lo spettacolare Nanook tra i ghiacci delle isole Orcadas in Antartide di Josè Moneta.

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