Salvatore Cuzzocrea lascia la poltrona di rettore all’università di Messina, ma la sua carriera accademica per il momento prosegue indisturbata. Non è detto che l’accusa di aver pubblicato troppi studi con immagini riciclate costituisca un ostacolo, visto com’è andata con i suoi colleghi. Cuzzocrea è il terzo ex-rettore universitario che finisce sulla graticola nel giro di pochi anni. Prima di lui e del ministro Schillaci, nel 2019 era toccato al collega dell’università di Ferrara Giorgio Zauli, anch’egli sospettato di aver manipolato una quarantina di pubblicazioni ma miracolosamente – e misteriosamente, visto che gli atti del procedimento non sono stati divulgati – salvato dall’inchiesta interna condotta dall’ateneo emiliano. Il ripetersi di scandali senza conseguenze che coinvolgono i «Magnifici» segnala la difficoltà delle istituzioni accademiche nel vigilare sui comportamenti a rischio.

Come nella maggior parte dei Paesi, anche in Italia le frodi scientifiche non costituiscono un reato di per sé e non è previsto che se ne occupino le forze dell’ordine, a meno che la frode serva a dirottare risorse pubbliche. Anche in quel caso, a dire il vero, l’esito è incerto. Quando nello scorso febbraio un altro caso di sospetta frode all’università di Messina – legato a un finanziamento da 850 mila euro a favore della professoressa Alessandra Bitto – è emerso sulle pagine del Secolo XIX, il ministero dell’università ha promesso approfondimenti di cui però si sono perse le tracce. La ministra Anna Maria Bernini, contattata dal manifesto, non ha voluto commentare la vicenda di Schillaci e Cuzzocrea. Eppure, il ministero dovrebbe garantire che i già scarsi fondi pubblici per la ricerca non vengano assegnati a ricercatori screditati a livello internazionale.

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Si tratta di un tema effettivamente delicato perché spesso l’intervento politico nel dibattito scientifico è percepito come un’interferenza degna di un paese illiberale. Ma è sotto gli occhi di tutti che i meccanismi di controllo interni alla comunità scientifica appaiono inefficaci di fronte al dilagare delle frodi. Le riviste scientifiche che dovrebbero selezionare il materiale da pubblicare nella stragrande maggioranza dei casi non effettuano controlli sulle immagini che con gli strumenti informatici attuali richiedono pochi secondi. E in tanti accusano il conflitto di interesse tra il rigore scientifico e la necessità di gonfiare i numeri delle pubblicazioni – complessivamente cresciute del 46% a livello globale solo negli ultimi sei anni – perché in molti casi sono gli autori a pagare migliaia di euro.

Fino al 2010 toccava al Consiglio Universitario Nazionale (Cun) indagare e sanzionare le truffe accademiche. Poi, l’allora ministra Mariastella Gelmini demandò il compito ai codici etici dei singoli atenei. Tuttavia, quando sotto la lente ci finisce un rettore, la sovrapposizione tra controllore e controllato spinge regolarmente a girarsi dall’altra parte. All’ateneo di Tor Vergata, dopo il caso Schillaci solo la «Rete 29 Aprile» che riunisce l’ala più militante dei ricercatori ha chiesto approfondimenti ai vertici dell’ateneo, senza peraltro ricevere risposta. Anche tra i rettori rappresentati da Cuzzocrea ai massimi livelli istituzionali finora si era fatto finta di niente. Forse perché ci sono altri sei rettori in carica le cui ricerche sono state segnalate come «sospette» dal sito Pubpeer, dove i ricercatori annotano le potenziali frodi.

Tra un rimbalzo delle responsabilità e l’altro, alla fine delle frodi scientifiche alla fine non si occupa nessuno. Elisabeth Bik è la maggiore esperta mondiale di frodi scientifiche e ha lavorato su molti casi che hanno riguardato rettori eccellenti, come quello della Stanford University Mark Tessier-Lavigne e lo stesso Schillaci. Anche lei è scettica sulla capacità delle università di indagare sui propri vertici. «Sarei più favorevole che a vigilare su questi casi di altro profilo fossero organismi nazionali» dice al manifesto. «Questo eliminerebbe alcuni dei conflitti di interessi delle università alle prese con accuse di comportamenti illegittimi che coinvolgono i loro dirigenti. Alcuni Stati, come il Regno Unito e i Paesi Bassi, hanno già istituito agenzie nazionali che però non svolgono indagini attive sulla base di queste accuse. Gli Usa hanno un Ufficio per l’integrità scientifica in grado di indagare  nei casi che riguardano la ricerca biomedica svolta con fondi pubblici, ma credo che rappresentino un caso raro». Creare un’agenzia indipendente a questo scopo sarebbe compito della politica. Ma che nessuno voglia occuparsene, a destra come a sinistra, non stupisce più di tanto. 

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Schillaci non è il primo politico coinvolto in questo tipo di scandali e i precedenti hanno riguardato tutti gli schieramenti. Prima di lui, una grave accusa di plagio ha riguardato l’attuale capogruppo dei senatori dem Francesco Boccia, che in un concorso universitario aveva allegato una pubblicazione copiata da altri autori. Anche l’ex-ministra Marianna Madia era stata al centro di un caso simile riguardante la sua tesi di dottorato alla Scuola IMT di Alti Studi di Lucca. Neanche il Movimento 5 Stelle si può dire estraneo a casi analoghi. Tra i coautori di cinque articoli di Cuzzocrea compare la farmacologa ed ex-deputata grillina Angela Ianaro (passata nelle file del Pd nel 2022). Sono in tutto undici le sue pubblicazioni segnalate su Pubpeer, una delle quali già ritirata dalle riviste. Anche la vice-presidente del Senato e responsabile sanità del M5S Mariolina Castellone ha guadagnato quattro segnalazioni su Pubpeer: prima di entrare in politica, da medica e oncologa collaborava con il professore dell’università di Napoli Alfredo Fusco, protagonista alcuni anni fa di uno dei più gravi scandali scientifici italiani riguardo la manipolazione dei dati e su alcune delle ricerche contestate c’è anche il suo nome.