«Ma il modello è Uber o Airb&b, non l’economia solidale. A guadagnarci è una finanziaria»
Intervista Davide Biolghini della Rete dell'economia solidale
Intervista Davide Biolghini della Rete dell'economia solidale
L’ambito che descrive la natura dell’Alveare che dice Sì! è quello di economia delle piattaforme. Ma secondo Davide Biolghini, responsabile del gruppo nazionale di ricerca della Rete di Economia Solidale (www.economiasolidale.net), appartiene a quelle che il giornalista del manifesto Benedetto Vecchi ha definito «piattaforme del capitalismo». «L'”Alveare madre”, cui va una percentuale di ogni transazione nei diversi Paesi in cui interviene, è stato realizzato da un gruppo di finanzieri, che, al modo della uberizzazione del lavoro precario, propone la sussunzione di sistemi di relazione propri, in Italia, del mondo dei Gruppi di acquisto solidale» ha scritto Davide dopo aver visto sull’ExtraTerrestre una pubblicità dell’Alveare italiano, sul numero uscito a metà marzo.
Perché, a tuo avviso, l’Alveare non può considerarsi economia solidale?
L’Alveare ha alle spalle un’impresa commerciale che gestisce le transazioni. Quindi, essa non è altro che una piattaforma delle multinazionali come ce ne sono altre che, legata al modello della gig economy, l’economia dei lavoretti, si propone sul mercato, in questo caso del cibo, per far profitti in modo nuovo. Essa si pone all’interno di un settore specifico, come Uber o Airbnb. Esistono altre piattaforme simili nel mercato del cibo, la più nota delle quali è forse Cortilia, che fa le stesse cose, ma in rapporto con un’azienda for profit italiana. Il modello è lo stesso, anche se nel secondo caso si propone la consegna a domicilio, una modalità di cui è ormai attore incontrastato Amazon, anche per la consegna di cibo biologico tramite accordo con NaturaSì.
Secondo i dati raccolti dalla società, gli iscritti agli Alveari non sono però persone legate ai Gas, ma soggetti «allontanati» dai supermercati. Questo non è positivo?
È vero che non sono i gasisti i primi destinatari, anche se alcuni di essi sono passati alla gestione di alveari, ma singoli o famiglie che all’interno di un contesto di digitalizzazione dei servizi sostituiscono il supermercato senza perdere la possibilità di fare velocemente una spesa, anche con la consegna a domicilio. Questo modello sacrifica le relazioni. Se proprio vogliamo acquistare così, proponiamo di studiare il modello OpenFood Network, che è almeno una piattaforma no profit.
Qual è lo stato di salute del mondo dei Gas?
Stiamo assistendo a una progressiva perdita dei riferimenti alla critica dei consumi con cui sono nati e alla riduzione degli ordini dei circa duemila gruppi d’acquisto solidali che esistono, verso i grandi ma anche i piccoli produttori biologici. Ciò si deve alla crisi ma anche all’attrazione crescente degli acquisti bio tramite supermercati o soggetti come Amazon. Noi proponiamo di affrontare questa situazione introducendo strumenti come i patti, che trasformano l’attuale relazione liquida tra Gas e produttori in una serie di impegni reciproci, ad esempio di preacquisto per il Gas e di prezzo trasparente per il produttore. In questo caso, tutte le transazioni non alimentano profitti ma un fondo di solidarietà, che permette di retro-alimentare il sistema di relazioni tra consumatori e produttori consapevoli, supportando in particolare le aziende dell’economia solidale, alcune in crisi e altre nuove. Questo rappresenta un modello alternativo intermedio, rispetto a quello delle food coop (come Camilla, a Bologna, che abbiamo raccontato sull’ExtraTerrestre il 21 giugno scorso, ndr), un modello che potrebbe permettere ai Gas di innovare senza mettere radicalmente in discussione il proprio modo di funzionamento. Oggi, invece, la nascita di una food coop, o di una Csa (cioè di una Comunità che supporta l’agricoltura, come Arvaia), paradossalmente può significare che dal Gas escono gli innovatori, cioè le persone più attive e disponibili, e restano tutti gli altri, che però non riescono a operare con modalità nuove.
C’è un’alternativa possibile?
Per noi, è quella della piccola distribuzione organizzata (Pdo). Esperienze come l’associazione BuonMercato di Corsico (Milano), o come la cooperativa CortoCircuito di Como, anche se ha chiuso: soggetti intermedi, no profit, che rafforizino la relazione solidale tra produttori e consumatori, mediante patti di filiera, se possibile usando anche una piattaforma su cui far convergere gli ordini.
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