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Un Alveare virtuale per produttori e consumatori

Un Alveare virtuale per produttori e consumatori

Il fatto della settimana Alla scoperta della rete L’Alveare che dice sì, che offre l’ortofrutta attraverso una piattaforma web. Bypassando la grande distribuzione

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 9 agosto 2018

Martina Re ha 27 anni, una laurea in Agraria e un lavoro da ricercatrice nell’ambito dell’agricoltura biologica. A luglio 2018 sta raccogliendo le adesioni per il suo Alveare, un gruppo di persone che si riunisce virtualmente per comprare direttamente da agricoltori e artigiani. Fa parte della rete L’Alveare che dice Sì ed è uno dei cinquanta in costruzione in Italia. Quando gli iscritti saranno 150 e Martina avrà terminato la scelta dei produttori, ogni mercoledì pomeriggio si potranno ritirare gli ordini presso i locali della Tipografia Alimentare (TipA), bistrot e food hub in via Dolomiti 1, a Milano.

«Conoscevo già l’Alveare, perché ne facevo parte come utente – racconta Martina – Quando i miei amici Martina Laura e Mattia (i gestori di TipA, ndr) hanno manifestato la volontà di trovare il modo di far acquistare ai loro clienti, che lo chiedono, le materie prime utilizzate nel locale, verdure, formaggi, pane e non solo, ho immaginato di poter organizzare lì il mio Alveare. Serve, per me, a rafforzare una realtà che vuole avere un preciso impatto nel quartiere in cui è nata, nel corso del 2018. Per quanto mi riguarda, mi ha convinto la possibilità di selezionare i produttori, di mantenere l’offerta entro un raggio di 150 chilometri dal punto di consegna, e di focalizzarmi prima di tutto sui beni di prima necessità».

Martina riconosce che l’Alveare lascia ai gestori la possibilità di «dare un taglio preciso» alla propria rete di produttori, e anche se «non tutti hanno competenze specifiche in ambito agricolo» e lei si dice vicina al modello di impegno volontario dei gruppi d’acquisto solidali (Gas), ritiene possibile «scendere a compromessi sul prezzo, perché siamo in una società che fa tutto tramite App, e la cosa che ritengo più importante è permettere l’acquisto di un certo tipo di prodotto». Che per lei significa una filiera corta che non può prescindere dalla certificazione biologica.

I compromessi sul prezzo di cui parla Martina sono misurabili nei «costi di servizio», che sono a carico dei produttori: il venti per cento di quanto ricavato, infatti, viene distribuito tra il gestore dell’Alveare (10 per cento) e l’Alveare madre (un altro 10 per cento, destinato allo sviluppo della piattaforma Internet e in Italia a un team di supporto tecnico e commerciale che vigila sullo sviluppo della rete).
Parla di «compromesso» anche Yukai Ebisuno dell’azienda agricola biologica Villaggio Verde di Cavallirio, in provincia di Novara, che serve due Alveari: «Un compromesso – sottolinea – accettabilissimo: ti trovano loro i clienti, e tu devi solo conferire il prodotto che è già venduto».

L’AZIENDA DI YUKAI è una delle 302 bio tra quelle che servono gli Alveari, su un totale di 1.525. «I produttori possono caricare sulla piattaforma anche altre certificazioni – spiega al manifesto Simona Cannataro, responsabile comunicazione dell’Alveare – Demeter, agricoltura biodinamica, Presidio Slow Food, Igp, Stg, Dop, Vegan Ok, garanzia partecipata». Chiediamo perché l’agricoltura biologica non è espressamente menzionata tra i valori del progetto, e Cannataro risponde spiegando che «per il consumatore c’è comunque la possibilità di filtrare l’ordine per acquistare solo da aziende certificate, bio e Demeter, ma che questa scelta permette l’iscrizione tra i fornitori a numerosi piccoli o piccolissimi produttori che lavorano bene, ma non possono permettersi la certificazione», che ha un costo. La parola d’ordine, secondo Cannataro, è piccoli: «Difficilmente i grandi produttori hanno interesse a lavorare con noi, perché probabilmente non sarebbero disponibili a seguire la distribuzione diretta dei prodotti».

È SCRITTO NELLE REGOLE D’INGAGGIO: tra gli obblighi del produttore, che sceglie il prezzo della sua merce, vi è quello di «garantire la presenza alla distribuzione se si raggiunge l’importo minimo di ordini», per ogni consegna. A tutela del produttore, però, c’è la possibilità di non consegnare qualora non venga raggiunto un quantitativo minimo indicato.

A luglio 2018, in tutta Italia sono attivi 106 Alveari. La maggioranza è concentrata in due regioni: 44 in Piemonte, 39 in Lombardia. Nelle sole città di Torino e Milano si contano 31 «grossi Alveari» (13 nel capoluogo lombardo, 18 in quello piemontese). Nel resto d’Italia la rete è più rarefatta. La terza regione per numero di Alveari è la Toscana, dove ce ne sono nove.

La distribuzione riguarda principalmente l’orto-frutta, che rappresenta il 70% sul totale delle vendite. Seguono carne e formaggio, pane e uova. Solo a seguire miele, marmellate. Altri prodotti – pasta, arance, pesce – arrivano a calendario, e sono gestiti dall’Alveare madre. «L’obiettivo è quello di permettere a un numero maggiore di persone di approvvigionarsi direttamente dai produttori, senza intermediazione – dice Simona Cannataro – L’applicazione permette di farlo anche a chi ha ritmi di vita un po’ congestionati. Conosciamo l’esperienza dei Gas, e sappiamo che richiedono una partecipazione attiva. L’idea dell’Alveare non è quella di bypassare il Gas, ma di rendere accessibile un modello di consumo più sano anche a chi non ne farebbe parte». Cannataro cita un questionario, sottoposto agli iscritti alla piattaforma, che sono in tutto 72 mila: «Abbiamo chiesto loro dove fanno la spesa, a parte l’Alveare, e quasi tutti hanno risposto “al supermercato”. Erodiamo il mercato dalla grande distribuzione organizzata, non quello dei Gas».

IL PROGETTO CRESCE e punta alla sostenibilità economica: a gestire la piattaforma italiana oggi sono sei persone, che lavorano in un incubatore presso il Politecnico di Torino. «Nel 2017 il giro d’affari è stato di 1,6-1,7 milioni di euro. Probabilmente, il 2018 sarà il primo anno in cui il bilancio sarà in utile. È successo già nel mese di maggio 2018, con un margine di 5 mila euro» racconta al manifesto Eugenio Sapora.
È lui, ingegnere aerospaziale, ad aver portato l’Alveare che dice Sì! in Italia, dopo aver conosciuto l’esperienza francese La Ruche qui dit Oui!, attiva dal 2011. «Questo è il terzo anno di attività, per noi. Siamo nati, come società, a dicembre 2015. Oggi il nostro margine si basa sulla possibilità di condividere gratuitamente una piattaforma, ma quando sarà stabilizzato dovremo contribuire ai costi di ricerca e sviluppo» spiega Sapora.

Tre anni fa, la società Equanum Italia srl nacque indipendente dalla casa madre. Oggi, invece, i francesi sono azionisti di maggioranza: «All’inizio ci accordammo sul fatto che la governance dell’Alveare fosse in Italia – racconta Sapora -. La maggioranza azionaria era italiana. Dopo un anno, però, ci rendemmo conto che lo sviluppo degli Alveari era stato meno folgorante che in Francia, che le nostre risorse non bastavano, e così ci siamo seduti al tavolo dei francesi, che consideravamo la nostra prima risorsa economica. È stato necessario un aumento di capitale, e oggi la società francese è in maggioranza anche nel capitale della società italiana». Nel capitale di La Ruche qui dit Oui! ci sono i tre fondatori – Guilhem Cheron, Marc-David Choukroun e in misura minore Mounir Mahjoubi – e alcuni fondi d’investimento specializzati in innovazione: XAnge, Union Square Ventures, Felix Capital e Quadia. In Francia, fanno sapere rispondendo a una domanda del manifesto, La Ruche ha sottoscritto un accordo con lo Stato che la riconosce come impresa dell’economia sociale e solidale, e ha ottenuto la certificazione di BCorp. È cioè una di quelle aziende che volontariamente rispettano i più alti standard di scopo, responsabilità e trasparenza.

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