Ma i monaci cenobiti non salvarono soltanto i classici greci e latini
Una delle visioni più vertiginose per chi ami la civiltà del libro è certamente il muro di scaffali nel chiostro della Thomas Fisher Library di Toronto, che si dice abbia ispirato, insieme a quella di San Gallo in Svizzera, la labirintica struttura della biblioteca monastica ne Il nome della rosa. Grazie a quel romanzo e ai luoghi comuni dei sussidiari scolastici (che riconoscono ai monaci il merito di aver «salvato» i classici greci e latini), il connubio fra libri e monasteri saldatosi nei primi secoli del Medioevo è rimasto cliché inossidabile. Ma cosa si trascriveva effettivamente nelle officine editoriali chiamate scriptoria? I classici in realtà non ne erano che una minoranza marginale. Nella coscienza comune il sapere di quei secoli è ancora avvolto da una nube di mistero, spesso colmato da un immaginario ambiguo. Come si misurava il tempo all’epoca di Clotilde e Clodoveo, di Sisebuto e Isidoro, di Eginardo e Rabano, di Teodolinda e Gregorio, di Rosmunda e Alboino – personaggi che pure hanno ispirato cicli pittorici e composizioni operistiche, drammi teatrali e rivisitazioni cinematografiche? Come si imparava la musica, come si facevano le moltiplicazioni, come si leggevano le stelle? Cosa si capiva del mondo naturale? La via di accesso al segreto di quei tempi è la scuola del monastero cenobitico, cioè comunitario, rivoluzionaria elaborazione sociale istituzionalizzata nel VI secolo. Strumento principe di questa attività, che all’epoca di Carlo Magno viene aperta a tutti i ragazzi e fa da modello ad altri tipi di scuole, è il libro in forma di codice, tecnologia del II-III secolo, giunta immutata ai nostri tempi, che perfino l’e-book fatica a scalzare.
Del connubio manoscritto-monastero si occupa ora Lidia Buono in Medioevo monastico nello specchio dei libri (pp. 471, € 40,00), edito da quel CISAM che dell’Alto Medioevo – come in Italia si usa chiamare il periodo VI-XI secolo – è da oltre settant’anni l’ente custode ed esploratore. Un libro insolito per un editore abitualmente rivolto alla medievistica specializzata, che con questa nuova collana «I tascabili» diretta da Massimiliano Bassetti ed Enrico Menestò, come già con le storie «medievali» delle città italiane dirette da Paolo Cammarosano, innova radicalmente creando un formato accattivante: filologicamente sorvegliato ma privo di note (sostituite da liste bibliografiche e webliografiche), punteggiato di spiegazioni per i non addetti ai lavori e ricco di figure, non di rado a colori. Nel caso della Buono le illustrazioni, che riproducono fogli o dettagli di manoscritti studiati dall’autrice in una lunga pratica al Laboratorio sul libro antico dell’Università di Cassino (e nella vicina abbazia di Montecassino), sono etimologicamente la luce che rende percepibili al lettore i processi intellettuali. Strumento innovativo della sua proposta sono infatti i molti diagrammi autentici (estratti dai codici) che presentano gli alberi dei sillogismi, i meccanismi della geometria, i procedimenti della matematica, i calcoli delle orbite astronomiche, la posizione degli astri. Del culto che le scuole altomedievali dedicavano alle arti del cosiddetto Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e che, seguendo la rivalutazione umanistica e quella gentiliana, ancora dominano l’impostazione letteraria dei nostri licei, si sa – o si crede di sapere – qualcosa. Ma dell’arco STEM delle scuole monastiche ci limitiamo quasi sempre a ripetere solo la formazione: aritmetica, geometria, astronomia, musica (talora medicina, raccomandata già nel VI secolo da Cassiodoro).
Lidia Buono invece ci introduce ai contenuti e ai metodi di queste materie nei primi secoli della storia europea («Europa» comincia ad assumere un’accezione politica proprio nei testi dell’VIII secolo). Più volte è richiamato il passo della Sapienza (11, 21) in cui si dice che il cosmo fu creato in «misura, calcolo e peso», fondamento biblico dell’interesse per le materie scientifiche. «Togli al mondo il calcolo, scrive Cassiodoro, e la cieca ignoranza avvolgerà ogni cosa; chi non comprende la quantità non può essere diverso dagli animali», e già Agostino ricordava che il numero è la strada che conduce per corporalia ad incorporalia al principio razionale dell’universo, conciliando con il nuovo orizzonte cristiano l’ispirazione pitagorico-platonica di cui si era nutrito.
In quest’area scientifica viene sviluppata la nuova macro-disciplina del computus, lessema-totem della cultura occidentale (da cui derivano «contare», «raccontare» e alla fine «computer»), che fonde aritmetica, geometria e astronomia finalizzandole anche all’elaborazione del calendario religioso (e perciò civile). I trattati sul computo sono il genere testuale forse più diffuso nella «pubblicistica» scolastica occidentale fino al XVII secolo (e insieme il più sottovalutato dagli studi), e oggi le celebri tavole a colori che quasi sempre li corredano sono spesso utilizzate per illustrazioni editoriali e mostre virtuali (come The Calendar and the Cloister, online). Ma una cosa è vederle, un’altra è essere guidati alla comprensione di colonne di numeri e abbreviazioni, cerchi concentrici ripartiti in spicchi colorati, petali di fiori con le zone climatiche, scacchiere di date, personificazioni di costellazioni attraverso limpide traduzioni di ardue didascalie marginali e accurate interpretazioni dei testi: ed ecco che epatte, indizioni, concorrenti, salti lunari e orbite planetarie, ma anche equazioni ante litteram e simbologia del numero assumono almeno per un attimo un profilo familiare e accessibile.
Lo stesso avviene per l’introduzione graduale delle cifre arabe avviata nel X secolo da Gerberto (il papa «mago» e maledetto), per il metodo di effettuare le divisioni decimali tramite sequenze di addizioni, per il sistema di calcolo «digitale» – cioè con le dita – che maneggia cifre anche grandissime prima dell’abaco, per l’idea della Terra rotonda con cui Virgilio di Salisburgo contrastò il papa nell’VIII secolo, per l’invenzione del «problema» come forma didattica promosso nella scuola carolingia da Alcuino di York (il consigliere di Carlo Magno). Un caleidoscopio di acquisizioni già sorprendente in sé, che si incrementa ogni giorno, come nella recente scoperta (che Medioevo monastico non ha fatto in tempo a registrare) del metodo di osservazione delle stelle per determinare l’ora notturna descritto in una poesia di Pacifico di Verona (ante 846) e illustrato dai manoscritti già nel IX secolo con la figura del «tubo» (fistula) la cui scoperta Richerio di Reims attribuisce erroneamente quasi due secoli dopo al suo maestro Gerberto.
L’apertura a una readership non specializzata fa sì che in questo volume per la prima volta brani molto tecnici della «enciclopedia scientifica di Aquisgrana», pubblicata solo nel 2006 da Arno Borst, siano tradotti dal latino in italiano: si auspica che entri così in circolazione una idea aggiornata della novità carolingia, che non fu una passiva rinascita classicista ma un laboratorio di sperimentazioni, come abbiamo cercato di sostenere (ci si perdonerà il rinvio personale) in The Carolingian Revolution e poi Matthew Gillian e soci in Carolingian Experiments.
Il percorso numerico giunge al suo culmine nel lungo capitolo sulla musica, che per la prima volta diventa strumento per eccellenza di transizione dal materiale all’extramundana intelligentia sia attraverso la sua struttura matematica – che Boezio trasmette al medioevo occidentale dalle fonti greche – sia attraverso la sua esecuzione liturgica, che trascina con sé connotazioni identitarie (canto romano, ambrosiano, gallico, mozarabico ecc.) in conflitto o superamento reciproco spesso anche per motivazioni politiche (i rapporti con Roma). Qui la trattazione accenna al processo di elaborazione della notazione scritta, altra «invenzione» carolingia (raccontata da Notker di San Gallo, cantore balbuziente) che facilita la memorizzazione di imponenti masse di melodie orali: ora ne abbiamo una facile verifica nell’edizione accessibile anche online del Corpus Rhythmorum Musicum IV-IX sec. Il punto di arrivo è l’invenzione delle sette note musicali con Guido d’Arezzo nell’XI secolo, ricostruita sui documenti e accompagnata da un bel passo del Musica Enchiriadis, IX secolo, in cui si ricorda la storia di Orfeo ed Euridice come mito fondatore dell’ideologia della musica quale forma «orfica» di conoscenza superiore. Qui la Buono ci presenta tutto il ventaglio dei «neumi» (i primi, numerosi segni musicali) attraverso snippet di forme attinte direttamente dai manoscritti senza deformazioni delle convenzioni di stampa. E con questo conclude ex abrupto, come un viaggio che non ha bisogno di commento e che si nutre solo dell’evidenza delle sue fermate, dei fatti concreti che esibisce.
È vero che per ognuno degli amplissimi territori coinvolti nel viaggio sarebbe possibile aggiungere o puntualizzare, ma è anche vero che ogni dato di questo vademecum è confortato come mai prima da accurata documentazione manoscritta e testuale (di testi non scontati e spesso mai tradotti prima). Sessantadue anni dopo la prima edizione di Éducation et culture dans l’Occident barbare di Pierre Riché abbiamo finalmente una documentazione integrativa sulla scuola europea dei secoli VI-XI che si libera dai luoghi comuni per fondarsi sugli strumenti concreti che quella stessa scuola ha prodotto e diffuso.
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