Rubriche

Ma dove è finita la politica?

In una parola

In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 9 febbraio 2021

Non mi addentro nelle autorevoli opinioni di chi pensa che Mattarella abbia un po’ forzato le proprie funzioni costituzionali. Mi interroga l’insistenza – secondo quanto scrive Marzio Breda sul Corriere della sera di ieri – che viene dal Colle sulla formula “governo di alto profilo, che non debba identificarsi in alcuna formula politica”. Che cosa vorrà dire?

Immagino che possa tradursi: non dovrà essere o sembrare un governo di centrosinistra, o giallo-rosso (tipo Conte bis) né uno di centro destra o giallo-verde (tipo Conte 1). Ma nemmeno un governo di centro, o di solidarietà o salvezza nazionale, tecnico, tecnico-politico, di transizione, del presidente, di vocazione europeista, oppure confindustriale, classista ecc..?

Si potrebbe facilmente osservare: anche il non identificarsi con alcuna formula politica è una formula politica….
A me suona così: la politica, o ciò che per lo più intendiamo per essa, si è suicidata negli ultimi tempi. Quindi cerchiamo di non parlarne più. Lasciamo che a guidarci sia “la forza delle cose” – cito ancora Marzio Breda – e l’idea che sia possibile “risolvere tutti insieme i problemi che abbiamo davanti”.

Questo assomiglierebbe all’ipotesi , evocata proprio da Mario Draghi, che nello stravagante mondo del capitalismo finanziario quando il gioco si fa duro, e l’areo su cui siamo imbarcati comincia a ballare, si possa tranquillamente inserire un “pilota automatico”.
Tanto, non ci sono alternative reali a come le cose devono andare.

Penso abbia però ragione Alfonso Gianni, l’altro ieri su questo giornale: Draghi non è affatto un “pilota automatico”. È chiamato a compiere scelte eminentemente politiche (come quelle che ha preso da presidente della Bce e non solo). Concordo anche sull’idea che il problema del Recovery Plan, più che temporale (bisogna fare presto) sia culturale (che cosa e come bisogna scegliere?).

Una discussione vera su questo punto potrebbe aiutare una sinistra che avesse voglia di reinventarsi. Magari non si sposteranno di una virgola le intenzioni di Draghi, ma si potrebbe provare a resuscitare la politica indecorosamente defunta. Proporrei due direttrici, una antropologica, l’altra tecnologica e scientifica.

Prendiamo la “parità di genere”. Ieri su La Repubblica Linda Laura Sabbadini parlava di una “occasione storica” per “aiutare le donne”, superare i gap occupazionali, retributivi, costruire asili, fornire servizi. Tutto giustissimo. Ma la parola libertà non era nemmeno pronunciata. Che cosa pensiamo di un mondo cambiato dalla libertà delle donne, e di come cambia anche la nostra, maschile, idea di libertà?

Oppure la altrettanto giusta indicazione (Riccardo Luna ancora su la Repubblica) per un “salto di qualità” per l’Italia digitale”. Ovvio: c’è bisogno di nuove infrastrutture e di più profonda e diffusa cultura digitale. Ma che cosa ne facciamo? Che cosa significa vivere e lavorare in un mondo digitalizzato? Come cambia il potere? Come si sviluppa il conflitto e la capacità di controllare chi decide – macchina o uomo – anzichè essere controllati? Come si può “programmare” l’economia – e la vita – ora che ognuno può dialogare con il resto del mondo in tempo reale?

Infine la retorica del “green deal”. La catastrofe ambientale, di cui il virus è sintomo (e forse non il più grave) ci spinge davvero alla svolta? Dovremmo essere capaci concepire in termini totalmente nuovi le relazioni tra scienza, natura e cultura. Vivere ricominciando da capo le relazioni con gli altri esseri umani e tutti gli altri esseri viventi. E la materia tutta. Sapendo che le risposte a questi interrogativi nella tradizione culturale della sinistra scarseggiano. E spesso sono sbagliate.

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