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Ma che sta succedendo alla Rai?

rimediamo

Ri-mediamo La rubrica a cura di Vincenzo Vita

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 19 gennaio 2022

Ieri la presidente della Rai Soldi e l’amministratore delegato Fuortes sono stati ascoltati dalla commissione del senato che si occupa di lavori pubblici e comunicazioni, nell’ambito dell’infinita istruttoria sulla riforma della governance dell’azienda pubblica. Infinita, appunto, perché forse pochi dossier hanno avuto tempi così lunghi di gestazione. Eppure, un calco praticabile – con potenziali buoni effetti sull’indipendenza della maggiore industria culturale italiana- si rintraccia come un filo conduttore dei e tra i diversi testi in esame. Insomma, che si aspetta? Potrebbe essere questo uno dei traguardi della legislatura, peraltro assai sorda rispetto ai temi dell’informazione. Due casi per tutti: la disciplina delle querele temerarie e lo sblocco dell’equo compenso per i precari.

Il tema sottoposto con maggior attenzione da Fuortes è stata l’annosa questione delle risorse. La raccolta pubblicitaria non va, il canone rischia persino di essere tolto dalle voci della bolletta elettrica con un eccesso di zelo nell’interpretazione delle indicazioni di Bruxelles. Tutto vero, ma sulla base di quali criteri si valuta la quantità di finanziamento necessario? Per fare che? Per quale servizio pubblico?
Torniamo all’insuperata contraddizione: si dibatte sulle modalità di formazione dei vertici dell’apparato, ma assai scarsamente dei valori e delle missioni da ridefinire nell’età digitale e nella crossmedialità.

Vero è, come ha sottolineato Marinella Soldi, che pur nella consistente adesione al servizio pubblico secondo una ricerca internazionale (88%, pur essendo diminuito il numero dei contatti giornalieri di dieci milioni dal 2011), il voto più basso riguarda proprio l’autonomia (6 su 10, nel 2019 5,5).
Tuttavia, la carenza principale della discussione tocca il nucleo identitario dell’azienda. Vale a dire la risposta al quesito essenziale: se il servizio pubblico deve o no partecipare alla competizione diretta con l’offerta on demand, specializzata e a pagamento delle piattaforme. Lì, tra l’altro, il conflitto si complica, estendendosi alla complessa vicenda dei diritti di trasmissione o all’acquisizione di spazi costosissimi come è nello sport o nei grandi eventi. In breve, dunque, il baricentro ha da essere (e sostanzialmente rimanere) l’offerta generalista sorretta dal canone più basso d’Europa? O, senza forzature, va pensata un’opportuna transizione tesa a varcare i confini, ibridando strutture produttive e tipologie di consumo? Soprattutto, è il momento di riscrivere non un semplice contratto di servizio (in scadenza quest’anno), bensì una sorta di Carta fondamentale. Esistono materiali interessanti, figli di elaborazioni puntuali di esperti ed associazioni, tra i quali i materiali dei convegni promossi da Articolo21 che compie vent’anni.

Senza creatività e coraggio teorico, la Rai sarà inesorabilmente condannata a rimanere prima sì, ma della serie B. L’offerta in streaming, complice pure la crisi delle sale cinematografiche, rischia di integrare e superare il vecchio video con i riti connessi. E l’effetto collaterale certo di una simile tendenza è l’ampliamento della frattura – di classe, oltre che generazionale- nell’utenza.
Proprio il servizio pubblico può e deve rivendicare una rinnovata funzione, non per trascinamento inerziale dei fasti dell’antico monopolio. Al contrario, per riaffermare il legame strettissimo con lo stato sociale, di cui è parte cruciale il Welfare della comunicazione.
Tra l’altro, il concetto di servizio pubblico è oggi conflittuale, viste le mire conservatrici in materia. Nulla è scontato, come rivela la minaccia del premier del Regno Unito Johnson di eliminare il canone della BBC da qui al 2028.

Proprio per tali motivi, è incomprensibile l’atteggiamento dall’amministratore sulla cancellazione dell’edizione notturna dei Tg regionali, impedendo per di più la trasmissione del video esplicativo del sindacato dei giornalisti della Rai. Un gravissimo errore di metodo si è unito alla sottovalutazione della ricchezza editoriale del territorio, che meriterebbe un rilancio, coinvolgendo le stesse emittenti locali disponibili.

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