Giuseppe Conte si chiude nel bunker in attesa del «segnale» dal presidente del consiglio: gli serve un argomento che gli consenta di poter rivendicare di aver spostato l’agenda del governo. Mario Draghi non può aprire il mercato delle rivendicazioni all’interno della maggioranza, ma a modo suo cerca di spedire messaggi.

Fa sapere che dopo di lui non c’è un Draghi bis e manda a dire ai grillini che la lettera che gli ha consegnato una settimana fa Giuseppe Conte contiene «punti di convergenza» col programma di governo. Poi mette sul tavolo il salario minimo ancorato alla contrattazione collettiva.
Conte ascolta, prende nota ma non si esprime. Convoca per questa mattina il Consiglio nazionale pentastellato. «Non parlerà prima di domani, per rispetto dell’organismo che deve coadiuvarlo nella decisione», dicono i suoi. Il leader procrastina anche perché da giorni percepisce che è fuori sincrono: non è lui a battere lui il ritmo della crisi e non aveva messo in conto di dover imboccare così presto il bivio della rottura col governo.

I tempi gli sfuggono. Aveva chiesto risposte «entro luglio» e meditava un’eventuale uscita dalla maggioranza «entro l’estate», cioè a settembre. Nell’arco di queste settimane avrebbe potuto elaborare una strategia e soprattutto avrebbe fatto apparire la rottura, se si fosse arrivati a quel punto, come inevitabile. Ma l’avvocato non ha tenuto presente alcune variabili. Le prime riguardano l’esistenza di altri attori. In una partita tanto delicata e complessa i tempi non li gestisci da solo: basta che Silvio Berlusconi torni in scena per chiedere una verifica di maggioranza per far saltare i piani. Inoltre, uscire dall’aula dopo aver votato la fiducia alla Camera o evitando persino di farlo al Senato non è segnale di attesa paziente e costruttiva: sono scene che raccontano una spaccatura già in corso.

Questo, d’altra parte, è quello che chiede la maggioranza dei parlamentari del M5S: si considerano ormai liberi di giocare la loro partita all’opposizione, senza il contrappeso dei realisti di Di Maio. La spaccatura la vogliono quelli al secondo mandato, per giocarsi il tutto per tutto. La chiedono quelli che stanno ancora al primo, in modo da investire alle prossime elezioni i dividendi (presunti) del ritorno all’opposizione. C’è un drappello di avanguardia che ha già fatto sapere che non seguirà il leader se dovesse decidere di restare nell’esecutivo. Questa sera all’assemblea dei senatori si manifesterà anche la forza uguale e contraria di quelli che gli chiedono di tirare il freno a mano e restare al governo. Carlo Sibilia, sottosegretario all’interno che a pochi minuti dalla conferenza stampa di Draghi ieri si è affrettato a diffondere un messaggio che canta vittoria per rivendicare l’importanza dello stare al governo. «Da giorni ci definiscono irresponsabili perché chiediamo con forza il salario minimo – dice Sibilia – Oggi Draghi annuncia un provvedimento sul salario minimo. L’azione politica del M5S è seria ed efficace». Da via Campo Marzio prendono le distanze: «È una posizione individuale».

Intanto, Luigi Di Maio continua il suo viaggio al centro dello spettro politico. Ieri ha riaccolto tra i suoi anche l’ex direttore del Tg5 Emilio Carelli, che si propone come ambasciatore tra i moderati (tendenza centrodestra) del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Il ministro degli esteri attacca il M5S e manda messaggi a quelli rimasti dentro che vorrebbero restare in maggioranza. «C’è una forza politica, il Movimento 5 stelle, che sta generando instabilità e che sta mettendo a repentaglio gli obiettivi che dobbiamo raggiungere per il paese – dice il ministro degli esteri – Giovedì al Senato c’è una verifica della maggioranza. Non ci può essere una forza che dice: ‘Forse giovedì mi astengo’. Ci dicano se stanno dentro o fuori».