M5S, la carta falsa dell’impeachment
Lo scontro con il Quirinale La messa in stato di accusa è impraticabile, una mossa buona per la propaganda. E non ci sono neanche i 45 giudici popolari
Lo scontro con il Quirinale La messa in stato di accusa è impraticabile, una mossa buona per la propaganda. E non ci sono neanche i 45 giudici popolari
Da «profondo estimatore» di Sergio Mattarella a suo nemico giurato, convinto che se resta lui al Quirinale è persino inutile tornare a votare: «Può fermare ancora il governo del cambiamento». Luigi Di Maio, passato in ottanta giorni da presunto vincitore a probabile sconfitto, ci ha messo otto minuti a rovesciare il suo atteggiamento verso il capo dello stato, rinnegare la fiducia riposta dal 4 marzo a ieri nel capo dello stato e nel segretario generale del Colle, con i quali ha persino tentato un gioco di sponda per conquistare in prima persona palazzo Chigi, e scatenare la guerra dell’impeachment contro il presidente e «se fosse possibile i suoi consiglieri». Non subito, però, perché prima c’è da affossare – missione assai più semplice – Cottarelli. E «l’incarico a un premier senza fiducia può motivare ulteriormente l’impeachment».
In realtà la messa in stato d’accusa al momento può solo essere agitata come elemento della campagna elettorale. Non c’è un costituzionalista, nemmeno tra quelli che criticano la gestione della crisi di Mattarella e la sua scelta di bloccare Savona, disposto a riconoscere i presupposti dell’articolo 90 della Carta, alto tradimento e attentato alla Costituzione. Non ci sono le due giunte per le autorizzazioni di camera senato che dovrebbero fare il primo filtro alle accuse, filtro mai superato nella storia della Repubblica. E non ci sono neanche i 45 giudici popolari tra i quali estrarre a sorte i sedici che dovrebbero integrare il plenum della corte costituzionale (anche quello al momento incompleto) nell’ipotetico processo al capo dello stato.
Non ci sono perché il parlamento trascura da quattro anni di aggiornare l’elenco, qualcuno nel frattempo è deceduto e gli altri è da tempo che non ricevono la conferma nell’incarico.
Dal blog alla tv Di Maio è dappertutto, mentre i suoi cercano di spalleggiarlo, Fraccaro recuperando un frammento di Terracini per fagli dire il contrario di quanto sostenuto dal Comunista nella Costituente, Toninelli presentando l’impeachment come un’alternativa ai tumulti di piazza. «Se la Lega non fa passi indietro la messa in stato d’accusa non è una possibilità ma una certezza assoluta», dice a un certo punto il «capo politico» uscente. Ma la Lega non ha mai fatto un passo in avanti e Salvini non ha la stessa ansia di Di Maio, non avendo sintonie con Mattarella da farsi «perdonare». E senza la Lega, malgrado l’appoggio del partito di Giorgia Meloni, la maggioranza del parlamento in seduta comune necessaria per far partire il processo – che paralizzerebbe ben oltre le elezioni la corte costituzionale, che invece potrebbe presto occuparsi della legge elettorale – è irraggiungibile.
Sono pochi e senza esito i precedenti. Nel 1978 il Pci decise in una riunione della direzione di sollevare la messa in stato d’accusa del presidente Leone per lo scandalo Lockheed (le accuse si dimostrarono poi false), Leone fu costretto alle dimissioni perché non fu difeso dalla Dc. Nel 1991 il precedente più consistente, con due diversi procedimenti avviati contro Cossiga per il suo coinvolgimento nella struttura parallela Gladio (e poi per gli attacchi al parlamento e al Csm). Una prima richiesta di Democrazia proletaria fu archiviata in quello stesso anno, una seconda portata avanti dal Pds, da Pannella, la Rete e Rifondazione venne rigettata dal comitato composto dalle due giunte di camera e senato solo due anni più tardi, nel 1993: nel frattempo Cossiga si era dimesso e il parlamento era stato rinnovato. Nel 1993 l’impeachment contro Scalfaro fu solo vagheggiato da Forza Italia, sulla base di critiche politiche che ricordano quelle che i 5 Stelle fanno oggi a Mattarella: essersi fatto parte per allontanare dal governo Berlusconi. Infine nel 2014 proprio i 5 Stelle provarono a mettere in stato d’accusa Napolitano (che nel’91 da leader migliorista si era opposto all’iniziativa del Pci contro Cossiga) con un atto formale in sei punti (aver consentito un eccesso di decretazione d’urgenza, non aver rinviato leggi incostituzionali, aver accettato il secondo mandato, aver appoggiato la riforma costituzionale, aver concesso la grazia a Sallusti ed essersi opposto all’utilizzo delle telefonate nel processo trattativa) che fu archiviato dal comitato parlamentare grazie all’astensione di Forza Italia. Il commento dei 5 Stelle? Lo stesso di ieri: «Non finisce qui».
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