Lygia Clark, Baba Antropofágica
Cristalli liquidi Dal contesto sperimentale di un atelier coi suoi studenti del dipartimento di Arts plastiques della Sorbona, l'opera del 1969
Cristalli liquidi Dal contesto sperimentale di un atelier coi suoi studenti del dipartimento di Arts plastiques della Sorbona, l'opera del 1969
Un uomo steso a terra, inerme e cogli occhi chiusi, accerchiato da un gruppo di persone che lentamente dipana dalla bocca un filo colorato, poggiato sul corpo dell’uomo. Cominciano dai piedi ma presto anche il volto è ricoperto. Al termine dell’azione i fili vengono sollevati e, liberato l’uomo, s’instaura una discussione tra i partecipanti i quali, a turno, si stendono a terra per subire la stessa sorte. Di Baba antropofágica (1969) esistono delle immagini dell’azione originale realizzata da Lygia Clark (1920-’88) a Parigi, dove è in esilio nel 1968-’74 a causa della dittatura militare nel suo Paese. Il contesto è quello, sperimentale, di un atelier coi suoi studenti del dipartimento di Arts plastiques della Sorbona. Il successo è testimoniato dai reenactement come dai racconti rilasciati dai partecipanti.
Solo in un secondo momento realizzo che l’aspetto più impressionante di Baba antropofágica non è l’uomo a terra progressivamente coperto di fili, quanto il filo stesso che esce dalla bocca dei partecipanti, poco importa che il rocchetto sia tenuto tra i denti o dentro la bocca. I fili sono intrisi di saliva, prodotta in gran quantità dalla cavità orale a causa del rocchetto che spinge contro le gengive e del filo che passa attraverso. In altri termini, i partecipanti non depositano semplicemente dei fili colorati sul corpo dell’uomo, come un fiore su un cadavere, ma salivano e sbavano su di lui. Estromettono dei fluidi corporali interni, delle secrezioni, trasferiscono l’umidità interna del corpo sulla pelle del volontario.
Clark ha l’idea in sogno, dove dalla sua bocca vede fuoriuscire una sorta di ectoplasma: «Ho sognato che aprivo la bocca e tiravo fuori una sostanza ininterrottamente. Mentre questo accadeva avevo l’impressione di perdere la mia sostanza interna, un fatto che mi angosciava molto soprattutto perché non riuscivo a smettere di perderla». Quanto ai partecipanti, «dapprima sentono che estraggono il filo. Finché cominciano a sentire che stanno tirando fuori le loro stesse budella». Coprire un corpo di fili coincide in finale con uno svuotarsi interno, con un gesto simile a quello del vomitare.
Che l’azione abbia un esito catartico, ricercato o involontario che sia? A leggere le testimonianze dei partecipanti la risposta non è univoca: a seconda dei casi, i fili diventano una ragnatela, una crisalide, un bozzolo, una placenta, un utero, una trappola simile a una rete di pescatori. Osservando l’intrico dei fili colorati nella documentazione fotografica oscillo tra una forma di vita simile ai coralli e un vomito da sbornia andata storta.
Se l’interpretazione resta aperta, la chiave di Baba antropofágica risiede senza dubbio nella discussione tra i partecipanti – perché in queste azioni-rituali non è contemplato un pubblico esterno come quello che osserva passivamente uno spettacolo: i presenti condividono lo stesso coinvolgimento, la stessa intensità. La sua natura viscerale e viscosa va letta anche in chiave psicoanalitica, e l’embodiment richiesto ai partecipanti è tanto biologico quanto culturale e sociale, teso alla costruzione di quello che Clark chiamava «corpo collettivo».
Come ammetteva in una lettera a Helio Oiticica datata 6 luglio 1974, la costituzione di tale corpo collettivo non era indolore e non si poggiava su alcuna esperienza pregressa: «Questo scambio non è piacevole… È uno scambio di qualità psichiche e la parola ‘comunicazione’ è troppo debole per esprimere quanto accade all’interno del gruppo». Resta il fatto che, come ha ben colto lo psicanalista Pierre Fédida, che l’aveva tra i suoi pazienti, nell’opera di Clark è manifesta una «volontà clinica e terapeutica». Nella condivisione delle sbavature Baba antropofágica cerca una «messa in opera dell’informe».
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