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Lydie Marland e altri soggetti resistenti al buio

Lydie Marland e altri soggetti  resistenti al buioCatherine D. DuBord e Cindee Mayfield-Dobbs (Lydie giovane e vecchia) nella commedia Lydie Marland in the Afterlife diretta da Susan Sargeant, Wingspan Theatre Company, 2013

Giornalismo narrativo Il sumo, le corse dei cani da slitta, Kate, la parabola della moglie del petroliere dell’Oklahoma... I personalissimi reportage «alla» Talese di Brian Phillips in Le civette impossibili, da Adelphi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 3 gennaio 2021

Volendo tracciare una storia del giornalismo narrativo, sarebbe senza dubbio da rievocare questa scena fondante: un ragazzo si aggira in un cimitero per animali domestici alla periferia di Atlantic City, cercando di sapere se il suo cane, fuggito di casa e dato per morto, sia stato portato lì. Del cane non troverà traccia, ma la visita gli ispirerà un articolo per il giornale cittadino in cui racconterà quel luogo sorprendente dove, insieme a centinaia di gatti, scimmie e pappagalli, riposano i cani di J.P. Morgan e di Irving Berlin o, ancora, l’ultimo dei borzoi allevati dai Romanov. Il ragazzo in questione è Gay Talese, e l’articolo il capofila di una serie di testi in cui contribuirà negli anni a ibridare la scrittura giornalistica con quella letteraria. Ancora più rilevante, però, è la riflessione che Talese dedicherà all’episodio nel saggio Nascita di uno scrittore di non-fiction (1996), riconoscendo nella storia narrata dall’articolo giovanile i tre motivi che avrebbero costituito il nucleo della sua ispirazione e del suo stile: «Mi riguardava direttamente. Possedeva un’attrattiva umana durevole. Ed era ambientata in un luogo sconosciuto che fino a quel momento non aveva attirato l’interesse di altri giornalisti».
Questi stessi tre motivi possono essere cercati e riconosciuti oggi nella raccolta Le civette impossibili (Adelphi «La collana dei casi», traduzione di Francesco Pacifico, pp. 318, € 20,00) di Brian Phillips, giornalista della stirpe di cui Talese è uno dei più illustri progenitori. Diventato celebre per il blog The Run of Play e per i contributi alla testata sportiva Grantland (ma anche al «New Yorker» e a «Slate»), Phillips si è formato come critico letterario ma ha finito per applicare la propria sensibilità e un eccezionale talento narrativo inizialmente al mondo del calcio (fatto già di per sé raro negli Stati Uniti), affermandosi come uno degli innovatori del giornalismo sportivo contemporaneo.
La raccolta apparsa ora da Adelphi testimonia come il suo approccio fatto di qualità di scrittura, capacità di mescolare temi alti e pop-culture senza confonderli e un «occhio» infallibile per splendori e miserie dei destini umani sia stato in grado di travalicare l’ambito dello sport mantenendosi intatto, e forse risplendendo ancora di più. Il risultato è questo libro le cui otto parti sono altrettanti piccoli «romanzi» che stupiscono, da un lato, per la capacità di portare il lettore in mondi diversi e lontani e, dall’altro, per l’unità di ispirazione che li sottende. Si passa, per citare solo alcuni dei temi affrontati, dal racconto dell’Iditarod, una corsa per slitte trainate da cani attraverso l’Alaska, alla vita del regista russo di film d’animazione Jurij Noržstein, alle gesta di uno dei principali lottatori di sumo contemporanei, a un ritratto comparato della regina Elisabetta e di Kate Middleton (quest’ultima seguita durante un viaggio insieme al consorte nel Nord del Canada).
Già da questo parziale elenco si potrebbe riconoscere l’adesione a uno dei tre motivi enunciati da Talese: il gusto per la frequentazione di «luoghi» poco bazzicati dal giornalismo mainstream, o per lo meno la scelta di angolature inedite da cui osservare soggetti già sotto gli occhi di molti (in questo, facendo tesoro dell’esperienza maturata con lo sport). Ma anche gli altri due motivi sono presenti, perché Phillips riesce sempre a restituire nei suoi pezzi un’urgenza personale e una partecipazione umana ai soggetti affrontati che si travasa con naturalezza dalla sua penna alla mente dei lettori.
Questo traspare con evidenza in due dei capitoli più riusciti del libro, «Mare delle crisi» e «Ma non la solita storia d’amore», dedicati rispettivamente al sumo e a una storia della città d’origine di Phillips in Oklahoma: la vita di Lydie Marland, figlia adottiva e poi seconda moglie del tycoon del petrolio E.W. Marland. Nel primo, Phillips riesce a fondere con perfetto equilibrio il senso di un malessere esistenziale con il fascino per la tradizione pluricentenaria del sumo e con la ricerca del discepolo di Yukio Mishima che decapitò, come da rituale, lo scrittore e il suo compagno dopo il seppuku. Nel secondo, lega con altrettanta naturalezza e senso di necessità il racconto di un lutto vissuto da bambino (la morte dei nonni in un incidente), al sentimento di estraneità crescente verso la vita di provincia, a una saga familiare «tascabile» sul crollo del capitalismo americano più arrembante.
Sprigiona, dalle pagine di questi così come degli altri saggi, una luce crepuscolare che ben si accorda con il sottotitolo dell’edizione americana del libro, Essays from the Ends of the World. «Il sumo – scrive Phillips in «Mare delle crisi» –, in essenza, è uno sport il cui senso è rifiutarsi di morire, rifiutarsi di diventare storia», e in ultima analisi i soggetti raccontati dallo scrittore sono mondi e individui al tramonto, o impegnati nella lotta per non scomparire. Sono crepuscoli lenti, sussurrati, pietosi, perché – rifacendosi ai celebri versi di T.S. Eliot – «è questo il modo in cui il mondo finisce / non già con uno schianto ma con un piagnisteo». Non di meno, però, conservano il segno della loro resistenza al buio, dello sfuggire alla classificazione definitiva nell’archivio del mondo, così come l’anziana Lydie Marland di «Ma non la solita storia d’amore», ormai ridotta a eccentrica vagabonda, «sfuggiva a ogni interpretazione» dei concittadini che avevano conosciuto la sua vita di fasti, misteri e cadute. Phillips sa cogliere la passione sottile insita in questa lotta, e tale forma particolare di empatia è la qualità che è destinata a rimanere con i lettori più a lungo alla chiusura del libro. Così come rimarranno nella mente le apparizioni apparentemente irrelate, in diverse sue pagine, di alcune civette, a rappresentare forse questa saggezza. E a ricordarci, come gli animali sepolti nel cimitero di Atlantic City, gli sforzi umani per opporsi all’onda della dimenticanza. Sforzi che meritano di essere raccontati, perché le cose che sono costrette a soccombere non semplicemente spariscono, ma «tornano come sogni, come incubi, figure irreali di punizione e mutamento. Come esseri che vengono a cercarti nel buio».

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