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L’utopia urbana di Mario Zanta

L’utopia urbana di Mario ZantaMario Zanta, «Milano New York» (courtesy of the artist)

Premio Hemingway Il fotografo trevigiano vincitore con il progetto «It’s all one song», sui paesaggi cittadini

Pubblicato più di un anno faEdizione del 1 luglio 2023
Manuela De LeonardisLIGNANO SABBIADORO (UDINE)

Nella sua forte frammentarietà, resa fluida dalla struttura grafica, ci sembrava vincente l’associazione ad una canzone che non fosse una canzone specifica ma l’idea di una melodia», afferma Marco Zanta (Treviso 1962, vive e lavora a Treviso) parlando di It’s all one song (2022), il libro fotografico sui paesaggi urbani pubblicato da Hartmann con la grafica di Damiamo Fraccaro (Otium) e il testo critico di Stefania Rössl, premiato alla 39^ edizione del Premio Hemingway (sezione fotografia), insieme a Shirin Ebadi (Testimone del nostro tempo), Antonio Fantin (Lignano 120 anni di futuro), Carlo Ginzburg (Avventura del pensiero) e Amélie Nothomb (Letteratura).

Un premio che, organizzato dal comune di Lignano Sabbiadoro con la collaborazione della Fondazione Pordenonelegge.it (la giuria è presieduta da Alberto Garlini), conferma il suo sguardo aperto all’incontro di diversi linguaggi che traggono forza reciprocamente. «Anche l’ipotesi del titolo» – continua il fotografo, autore di altre monografie tra cui Rumore Rosso (Charta, 2000) e UrbanEurope (Contrasto, 2008) – «è stata frutto di una condivisione di idee che si è rilevata forse la più giusta, in sintonia con il discorso del libro stesso perché tutto nasce come un flusso continuo di fotografie.»

La struttura grafica di «It’s all one song» è il sistema di costruzione che dà unitarietà alla narrazione sottolineando l’omologazione dei singoli luoghi fotografati, senza però restituirne al lettore l’immediata identità…
Nei tredici mesi di gestazione del libro ho pensato che per certi versi questo progetto potesse essere anche una sorta di fallimento dell’idea della fotografia documentaria, di paesaggio e specificamente di paesaggio urbano che è alla base del mio lavoro. Cioè raccogliere con lo sguardo e riuscire a raccontare tutta la tensione e le difficoltà di una struttura urbana. It’s all one song è l’opposto. Quasi come un manifesto intenzionale vuole dichiarare che è impossibile narrare una città, organismo estremamente complesso. Il racconto, essendo frutto della scelta individuale del fotografo, per forza di cose è anche molto parziale. Insistere, quindi, sull’aspetto della frammentarietà ricostruendo attraverso di essa un organismo urbano utopico – una città che non esiste fisicamente ma che comprende tutte le città – è stata alla base del concetto del libro, anche dal punto di vista strutturale.
Abbiamo affrontato vari modi per raccontarla, considerando che da subito è stato chiaro che non volevamo una sorta di libro retrospettivo sul mio lavoro, perché farlo senza una mostra non avrebbe avuto senso. Volevo anche che fosse presente l’aspetto legato all’organizzazione del mio lavoro, perché le quaranta fotografie che compongono il libro sono state estrapolate da diverse serie che ho realizzato nell’arco di vent’anni.

C’è anche una foto scattata a Treviso nel 1990 e poi molte altre, tra cui Manchester, Beirut, Tripoli, Mosca, Tokyo, fino alle più recenti a Barcellona e Milano…
Il mio lavoro si basa essenzialmente sulla narrazione delle architetture, dei luoghi urbani e degli ambienti industriali. L’idea era quella di mescolare tutto questo, dando la sensazione che nonostante ci sia sempre da parte mia una forte dinamica progettuale nell’affrontare ogni singolo lavoro, è presente anche una parte consistente legata alla sorpresa. Sono abituato a documentarmi su quello che andrò a fare, ma contemporaneamente c’è sempre qualcosa che mi spiazza: questo aspetto di «apparizione» prevale su tutto il resto. Volevo che nel libro tutto ciò fosse restituito. Inizialmente avevamo pensato ad un libro a folder che ricordasse un film, ma viste le complicazioni sia economiche che produttive abbiamo messo da parte quest’idea, costruendo il libro in questa maniera un po’ strana con la rilegatura svizzera ma piegato alla giapponese perché il lettore piegando le doppie pagine potesse ricostituire l’integrità della singola fotografia che altrimenti non è mai visibile. Il libro contiene un’unica foto intera, in una doppia pagina, in cui è inquadrato un cinema di Xi’an in Cina. Tutte le altre sono «fette» di fotografie che si ricongiungono con altre immagini.

Nel testo «La città continua» di Stefania Rössl leggiamo citazioni di Italo Calvino, John Szarkowski, Aldo Rossi, Lewis Baltz, Wim Wenders, Zygmunt Bauman, Suketu Mehta… tra questi autori ce n’è uno che senti più affine?
Certamente Lewis Baltz che è stato per me un grandissimo amico, una persona che ho frequentato per anni. Lo conobbi nel 1987 in occasione della mostra Nuovo paesaggio americano/Dialectical Landscapes a Palazzo Fortuny, Venezia dove Paolo Costantini presentava il suo lavoro insieme a quello di Robert Adams, William Eggleston, John Gossage e Stephen Shor. Ritrovai Lewis anni dopo quando venne a fare un lavoro per Linea di Confine per la Fotografia Contemporane a Rubiera, Reggio Emilia. Quando, poi, si trasferì a Parigi e andò un po’ nel dimenticatoio da parte della critica internazionale, lo chiamai e gli proposi di venire a fare un lavoro a Treviso (Passaggi fotografici – lavori commissionati dall’Arci di Treviso – ndr). Lui accettò immediatamente, si ricordava che ci eravamo conosciuti attraverso Paolo Costantini. Nel 2003 restò per un po’ di tempo a casa mia a Treviso e lo introdussi anche a Marco De Michelis che gli assegnò una cattedra allo IUAV di Venezia. Lui, a sua volta, fece il mio nome nella stessa università. Lewis mi ha fatto capire molte cose sulla fotografia: intanto a distaccarsi dalla fotografia stessa. Mi affascinava che proprio nel momento in cui era arrivato ai livelli massimi della sua carriera avesse deciso di smettere di fotografare, una scelta coraggiosa. Aveva una marcia in più dal punto di vista umano oltre che essere intellettualmente eccezionale. Era anche generoso, molto paterno o forse dovrei dire fraterno.

Come nasce il tuo interesse per la fotografia?
Nasce un po’ per caso. Quando ero molto giovane studiavo musica, suonavo la chitarra e poco dopo l’adolescenza mi venne voglia di fotografare i musicisti e i concerti jazz. In casa avevo una macchina fotografica – tutti ce l’avevano all’epoca – e nel giro di pochi mesi capii che da grande avrei voluto fare il fotografo. Il binomio musica-immagine è una costante della mia vita. Sono sempre stato molto legato alla produzione della casa discografica tedesca ECM records. Manfred Eicher, il fondatore, ha prodotto una musica eccezionale nella sfera del jazz con contaminazioni anche nella musica classica, world music, folk.
Quando, all’inizio degli anni ’80, ho scoperto ECM non è stato attraverso la musica ma l’immagine. I dischi avevano copertine straordinarie che utilizzavano in maniera geniale le immagini fotografiche di tanti autori contemporanei come Luigi Ghirri, Franco Fontana e tanti altri.
All’epoca in Italia non c’erano scuole di fotografia, ma ho avuto la fortuna di incontrare grandi fotografi come Guido Guidi, che allora viveva a Treviso, con cui per molti anni c’è stata una stretta relazione. Ci si ritrovava in laboratorio, si scambiavano opinioni sulle foto, insieme abbiamo fatto anche molti viaggi. Per anni, poi, ho organizzato a Treviso mostre e incontri invitando tanti fotografi, tra cui Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Mario Cresci, Paolo Roversi, Gilbert Fastenaekens. Cercavo di spaziare quanto più potevo in una fotografia che ritenevo molto intelligente. Ero il più piccolino ed erano tutti molto gentili e affettuosi, inoltre avevo sempre la vicinanza di Paolo Costantini e Italio Zannier, due monumenti per la fotografia in Italia.

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