Lutero, un’eredità nel sociale
Cinquecento anni dopo le «95 Tesi», quel che resta della Riforma e dei suoi anticorpi Nel 1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una celebrazione che era motivo […]
Cinquecento anni dopo le «95 Tesi», quel che resta della Riforma e dei suoi anticorpi Nel 1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una celebrazione che era motivo […]
Nel 1917, a 400 anni dalle 95 Tesi di Lutero, varie chiese sorte dalla Riforma si trovarono di fronte a un problema: sentirsi unite da una celebrazione che era motivo di coesione identitaria o prendere atto del fatto che i loro Paesi erano nel bel mezzo di una guerra mondiale? Accettare l’eredità del monaco agostiniano, che fece da cerniera tra il tardo Medioevo e la modernità, o adeguarsi alla politica drammatica di guerra che poneva come prima esigenza quella di combattere il nemico? Per la prima volta, forse, le chiese luterane degli Stati Uniti si sentirono pienamente americane, nonostante la filiazione diretta dalle «chiese sorelle» di Germania. E che dire dei protestanti che in Europa videro i propri territori occupati dalla Germania nazista? Puoi condividere la stessa fede in Dio con coloro che stai combattendo?
FARE I CONTI, oggi, con cinque secoli di Riforma protestante comprende anche questa presa d’atto: per quanto il messaggio della fede in Gesù Cristo sia universale e rivolto all’umanità intera, la famiglia protestante nel mondo, rispetto alla chiesa cattolica romana si vede frazionata, anche se chiunque, a qualunque latitudine può sentirsi partecipe di una comunità cristiana; certo, riunirsi nell’alveo di una chiesa significa pur sempre fare i conti con la dimensione terrena dell’esistenza, dimensione ben lontana dall’essere perfetta; ma d’altra parte nessuna chiesa, nella visione protestante, può pensare di essere l’unica. E infatti quelle nate dalla Riforma hanno anche una identità nazionale, a partire dai valdesi, diffusi come movimento già tre secoli prima di Lutero.
La consapevolezza dei propri limiti caratterizza l’essere protestante: una cognizione di sé che trova il suo naturale sbocco nel radicamento sociale. Se questo per i valdesi si tradusse nella difesa strenua della propria terra di montagna, per tutti tale atteggiamento significò e significa tuttora inserirsi nella società e spendere nella comunità civile la personale risposta alla chiamata (vocazione) ricevuta da parte di Dio, attuando opere mirabili, ma anche nefandezze come il regime sudafricano dell’apartheid, che bestemmiò la dottrina calvinista.
Tuttavia alle infezioni si possono opporre degli anticorpi: è quanto avvenne quando l’Alleanza riformata mondiale (oggi Comunione mondiale di Chiese riformate – ramo calvinista della Riforma) sospese negli anni ottanta due chiese sudafricane di origine olandese, per il sostegno dato al regime razzista; persasene una per strada, l’altra è stata riammessa avendo condannato le proprie posizioni.
Ognuno di noi – a partire dalla definizione di Lutero – è simul iustus et peccator, a un tempo reso giusto da Dio e però pur sempre umano e incline al peccato.
INTORNO A QUESTA dialettica tra universalità e radicamento si sono sviluppate anche le iniziative del 500/mo anniversario, cominciate invero il 31 ottobre 2016 nella cattedrale luterana di Lund in Svezia, con la partecipazione di papa Bergoglio a significare un’auspicata nuova stagione di rapporti fra cattolicesimo e chiese nate dalla Riforma. La sua presenza presso la «famiglia luterana mondiale», pur ponendo problemi a qualche oppositore in casa cattolica, che vedono la Chiesa di Roma «protestantizzarsi», ha fatto capire come vi siano le condizioni per avviare una lettura il più possibile condivisa del passato.
UNO SGUARDO NUOVO per una comprensione nuova, come testimoniato dal bel convegno organizzato nel novembre scorso dalla Conferenza episcopale e dalle chiese evangeliche, proprio nella Trento che fu sede del Concilio, da parte di chiese che hanno un problema in comune: parrocchie cattoliche e chiese del protestantesimo storico si vanno svuotando, sotto l’influsso incrociato di secolarizzazione e progresso scientifico.
LA NATURALE TENDENZA protestante alla coscienza critica (per secoli rubricata alla voce «individualismo protestante») finisce per esporre le chiese della Riforma a un’autocritica serrata, non avvistata per ora all’orizzonte di altre formazioni neo-protestanti (evangelical) che vedono aumentare i fedeli e le presenze ai servizi liturgici, sia in Asia e Africa sia in paesi come il nostro, che accolgono (quando lo fanno) immigrati evangelici di provenienza terzomondiale.
Vi sono anche altri ambiti in cui le chiese nate dalla Riforma si affacciano e dialogano con la Chiesa cattolica (e in parte anche con il mondo ortodosso). Bene avviati ormai da decenni gli studi teologici comuni con le Università cattoliche e le traduzioni e studi filologici sulla Bibbia, sono sotto gli occhi di tutti le sinergie nei settori di accoglienza e assistenza, come testimoniato dai «corridoi umanitari» per richiedenti asilo, avviati nel marzo 2016 dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia con la Comunità di S. Egidio e la Tavola valdese, attraverso un protocollo siglato con i ministeri dell’Interno e degli Esteri, modello ripreso nel corso dell’estate dai protestanti francesi.
LE NOTE DOLENTI si situano a un livello più ecclesiologico che teologico: la strutturazione gerarchica della Chiesa cattolica, nonostante l’opera pluridecennale di alcuni ambiti di avanguardia (per esempio nel campo dei matrimoni interconfessionali), le rende difficile pensare alle altre chiese come sullo stesso piano rispetto a lei. E poi è il piano etico quello che fa più parlare di sé.
Il carattere più normativo che dialogante della Chiesa di Roma è respinto in quanto «impositivo» da parte della cultura laica: procreazione assistita, fine-vita, eutanasia e suicidio assistito, etica sessuale, a fronte di posizioni abbastanza rigide da parte cattolica, fanno registrare una tendenza delle chiese protestanti a puntare molto sull’autonomia e sulla coscienza dell’individuo, in linea con la consuetudine del libero accesso al fondamento della vita cristiana, cioè le Scritture bibliche, sede della rivelazione di Dio all’umanità. Capita però che il mondo non-cattolico in Italia interpreti questa accentuazione di libertà dell’individuo spingendolo «oltre».
IL CREDENTE PROTESTANTE è infatti sì libero, ma «libero per servire», cioè per servire, amandolo, il proprio prossimo (Epistola ai Galati 5, 13): e questo avviene con la cura dei propri simili, all’interno della società e non ai margini di essa; inoltre, è nella società e nella politica che si spende l’esistenza del o della credente protestante, alle prese con la propria coscienza e consapevole di non rappresentare un’intera chiesa.
Alla base di questo atteggiamento, però, è la convinzione che questa libertà non è frutto di nostre conquiste, ma ci è stata data. Più che libero o libera, il (la) protestante sa di essere stato «reso libero», e di questo è grato o grata a Dio. Essere stati resi liberi significa sapere che di questa autonomia un giorno saremo chiamati a rispondere a chi l’ha donata gratuitamente. Ogni risultato è provvisorio, come lo è questo anno di celebrazioni, da intendersi come nuova, ulteriore ripartenza.
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