L’inferno è uno spazio fisico o una condizione interiore? È un luogo o uno stato? Se oggi gran parte dei credenti e dei non credenti propende in diversi modi per la seconda opzione, in passato non sempre è stato così. Ma se l’inferno è un luogo, dove si trova? Che forma ha, che aspetto ha? Da queste domande parte Matteo Al Kalak in Fuoco e fiamme Storia e geografia dell’inferno (Einaudi «Storia», pp. XIX-270, € 25,00): un libro insieme erudito e scorrevole che, come un caleidoscopio, mostra a chi legge, in una serie di simmetrie cangianti, la varietà di forme e colori con cui l’inferno fu dipinto. Sull’argomento si è scritto moltissimo, ma non si tratta di una sintesi né di una rassegna, bensì di un’indagine sulla morfologia e le funzioni attribuite al locus inferni dalla cultura italiana ed europea dell’età moderna. L’arco cronologico prescelto, dal Cinque al Settecento, corrisponde a un periodo intermedio: l’ordine rigoroso elaborato nel medioevo è sottoposto a dubbi e aggiustamenti, ma l’inferno non è ancora generalmente interiorizzato e spiritualizzato come nella cultura dell’Otto e Novecento.
Nel primo capitolo il protagonista è Satana, perché l’inferno ha un rapporto genetico con l’angelo ribelle: nasce dalla ribellione di Satana, o più precisamente dalla sua caduta. All’inferno si arriva così attraverso una galleria di teologi che hanno spiegato la caduta del principe di questo mondo, di poeti e scrittori che l’hanno narrata e di artisti che l’hanno rappresentata. È un proposito chiaramente espresso dall’autore, quello di affrontare un argomento teologico senza limitarsi alla teologia, e allargando il campo all’«immaginario collettivo». Frutto del dialogo con opere come La nascita del purgatorio (1981) di Jacques Le Goff, La casa dell’eternità (’87) di Piero Camporesi e la più recente Storia del limbo (2017) di Chiara Franceschini, questa scelta forse non è scontata dal punto di vista del metodo, ma è certamente felice dal punto di vista dei risultati. Dopo aver lasciato Satana sullo sfondo (per riprenderlo nell’ultimo capitolo), lettori e lettrici si trovano di fronte a una serie di grandi questioni: il rapporto tra scienza e fede, la distinzione tra dogma e superstizione, la legittimità del criterio retributivo, fondato sul merito, nel determinare la salvezza o la condanna. Ma la discussione non si fa mai troppo astratta, il quadro resta concreto e animato, fatto di opere o dettagli talvolta curiosi ma non gratuiti.
A guidare chi legge, più che i testi, sono le domande che li attraversano. Dopo aver visto come è nato l’inferno, è d’obbligo chiedersi dove si trova e come è fatto. Per precisarne il sito e la forma, la teologia della prima età moderna dovette fare i conti con le nuove prospettive aperte dall’allargamento degli orizzonti geografici dell’Europa e dall’incipiente rivoluzione scientifica: dovette cercare un equilibrio (sempre precario) con la cosmologia e la geologia, con una cultura scientifica che si preoccupava di misurare e posizionare l’inferno in una geometria ordinata. Le incongruenze emersero da ogni parte: se l’inferno è un abisso, una voragine che si apre sulla superficie terrestre, come si spiega la sua minore capienza rispetto alla terra da cui è circondato? Gli abitanti della terra sono infatti meno numerosi di quelli dell’inferno, dove la morte non esiste e la popolazione non può che aumentare. D’altra parte, i dannati secondo le Scritture sono più numerosi degli eletti: ma se i secondi avrebbero riempito il firmamento, i primi come sarebbero entrati in un luogo tanto ristretto? Senza contare che, al momento della resurrezione dei corpi, questi si sarebbero ricongiunti alle anime, generando un ingombro anche maggiore.
Non si tratta solo di curiosità e questioni oziose: tra il modo in cui una società organizza lo spazio sulla terra e nell’aldilà esistono delle corrispondenze. Per teologi e predicatori, che richiamando la realtà e fisicità del locus inferni intendevano alimentare nei fedeli la certezza di una punizione ultraterrena, l’idea degli inferi come una grotta con molte cavità, come uno spazio cavernoso e sotterraneo dalla forma irregolare (tendenzialmente conica) non era una rappresentazione interiore, ma un’accurata descrizione della morfologia dell’aldilà. Ci furono a dire il vero anche proposte diverse: nel 1714 il teologo inglese Tobias Swinden indicò la sede dell’inferno nel corpo del sole. Ma sebbene risolvesse alcuni problemi (il sole era composto di un fuoco reale e duraturo, ed era molto più grande della terra), la proposta ne sollevava molti altri, che gli avversari di Swinden non tardarono a sottolineare. Se l’inferno si trova nel sole, perché le Scritture lo collocano in basso, parlano di una discesa agli inferi? Cristo stesso si è immerso nelle tenebre dell’oltretomba per liberare dal limbo i giusti dell’Antico Testamento.
I particolari di questo episodio sono tutt’altro che chiari e fissati una volta per tutte, ma dove la teologia si mostra reticente, la pittura può rimediare. Dalla pala di Domenico Beccafumi per la chiesa di San Francesco a Siena alla Discesa di Federico Zuccari (oggi a Brera), con varie soluzioni il limbo dei padri è visualizzato come parte integrante dell’inferno: espugnato dal Figlio di Dio subito dopo la sua morte sulla croce, è un antro oscuro che, in alcune interpretazioni, emerge come una grotta dalla superficie della terra.
L’inferno ha dunque un ingresso, e le pagine più belle del libro sono dedicate alle porte degli inferi e a coloro che poterono attraversarle in un senso e nell’altro, che poterono andare e tornare. Se l’inferno è fatto di fuoco e le sue fiamme sono racchiuse sotto la superficie del pianeta, non stupisce che in molti – sulla scia di idee antichissime, condivise da culture diverse – abbiano individuato un possibile varco nei vulcani. Nell’Europa del Cinque e Seicento l’opinione prevalente tra i teologi, tuttavia, è che i vulcani o i fenomeni di vulcanismo secondario (fonti idrotermali, soffioni boraciferi) non siano porte o varchi per raggiungere l’inferno, ma segni, moniti: una sorta di anteprima del fuoco eterno, che spaventi i fedeli e li sproni a evitare una sorte del genere.
La medesima finalità, dettata da una martellante ‘pastorale della paura’, come la definì Jean Delumeau, è alla base dei resoconti di viaggio nell’aldilà di mistiche e visionarie. Dalle medievali Brigida di Svezia e Francesca Romana, fino a María de Ágreda (1602-1665) e Veronica Giuliani (1660-1727), si tratta quasi esclusivamente di donne, è bene sottolinearlo. Ed è bene sottolineare anche che i loro racconti non sempre rispondono alla strategia comunicativa dei predicatori, che talvolta, è vero, stimolano chi li ascolta a visualizzare gli abissi del male, ma altre volte, e forse più spesso, ricorrono a una retorica dell’indicibilità, per cui è inutile stilare un repertorio degli orrori incapace di cogliere la realtà di un luogo che per definizione oltrepassa l’esperienza umana.
Ma la tentazione di visualizzare l’aldilà era troppo forte, e così gli immaginifici inferni barocchi sono spazi in cui gli opposti convivono (caldo e freddo, fuoco e ghiaccio), strettoie in cui chi si immerge prova una sensazione di claustrofobia, fra tenebre e odori immondi, secondo descrizioni nelle quali l’intento realistico e quello simbolico si sovrappongono tanto da risultare difficilmente distinguibili.
In questa girandola di opposti e di estremi, tuttavia, l’inferno dei moderni non è quasi mai associato al deserto; è anzi «la regione più popolata di tutte», come scrive nel 1729 il gesuita Ferdinando Zucconi. Il libro dedica un ultimo, denso capitolo a «Quel che resta dell’inferno»: lasciati ormai alle spalle i sovraffollati inferni moderni, è solo nel mondo contemporaneo che – mentre l’inferno si trasforma in una condizione psicologica e l’angelo ribelle torna alla ribalta per la sua scelta di separarsi da Dio – un famoso teologo ha ricordato la possibilità, e speranza, che l’inferno sia vuoto.