Noi non siamo qui per fabbricare il mito di una poesia contadina; non siamo qui per nutrire la leggenda del piccolo sindaco-poeta. Siamo qui per continuare la nostra conversazione con lui». Così scriveva Franco Fortini in un intervento al convegno dedicato a Rocco Scotellaro nel 1955 a Matera. Erano passati due anni dalla morte del poeta e Fortini proseguiva: «Non ho mai creduto, è bene dirlo francamente, alla poesia che è canto di tutti. La poesia facile non esiste. Nulla di quel che è serio ed autentico è facile, né in politica né in poesia». Citare Fortini, grande ammiratore della poesia di Rocco, è obbligatorio mentre si avvicina l’aprile del 2023, centenario della nascita dell’intellettuale e poeta di Tricarico. Obbligatorio perché può esser letto come monito e invito verso le molteplici iniziative che si annunciano su Rocco Scotellaro per il prossimo anno in molti punti della Basilicata, che dimentica spesso di essere, come scriveva Amerigo Restucci in una guida del territorio, «una regione dove spesso la natura si integra all’arte fornendo aspetti di estrema originalità». Ma è bene porsi alcuni interrogativi. Si saprà resistere alla tentazione di riproporre il santino con buone intenzioni che lasciano tutto come prima o peggio? Si saprà proporre un excursus nel mondo di Rocco Scotellaro che è anche una rivisitazione critica degli anni cruciali del dopoguerra in cui si gettarono le basi nel bene e nel male del progresso della Prima Repubblica? E, soprattutto, si saprà «attualizzare» quella storia alla luce dell’imprescindibile sfondo europeo di oggi? È quel che stiamo tentando di capire anche con alcune pagine su questo giornale (vedere Alias del 23/04/22) seguendo il percorso che porterà alcuni intellettuali e cittadini a promuovere iniziative e incontri.

«Sono uno degli altri» diceva Scotellaro e questo è il punto decisivo oggi. Come invertire la logica solipsistica di una società che ha smarrito da tempo non solo le grandi narrazioni sociali (e socialiste) ma anche alcuni capisaldi della cultura liberale. A Tricarico, come altrove, è questo il problema se si vuole usare una data simbolica come il centenario della nascita di un poeta e politico per lasciare un segno profondo per il futuro. Che si lasci alle spalle non solo anni di amministrazioni pubbliche incapaci e banali ma anche la passività della pubblica opinione. E così torna dirompente quello che è il segreto, purtroppo dimenticato da molti, di ogni progresso autentico, cioè il connubio tra sviluppo della cultura materiale e della cultura artistico-simbolica. Se non camminano insieme si fallisce. L’una e l’altra sono state in parte umiliate a Tricarico stimolando la fuga di tantissimi giovani: il paese è ora al di sotto di 5000 abitanti quando negli anni Settanta del secolo ne contava circa 7000.

Un breve viaggio nella cultura materiale e in quella artistico-simbolica è sufficiente per inquadrare lo stato delle cose in questo paese e per porvi rimedio. Rimarcando intanto che decadenze e fallimenti, in entrambe le culture, viaggiano assieme a resistenze ammirevoli e tentativi coraggiosi di produrre nuove cose.
Un esempio di questo fallimento delle forze produttive è il salumificio zonale del tutto abbandonato dopo investimenti cospicui che hanno lasciato sul campo strutture all’avanguardia e capannoni obsolescenti. Fa davvero male al cuore passeggiarci dentro e vedere lo scempio del denaro pubblico.

Così come colpisce lo smantellamento della tenuta pubblica agricolo-zootecnica dove, tra l’altro, si sperimentava il rilancio del maiale nero lucano. Una Comunità Montana inetta ha chiuso tutto tempo fa. E sì che è chiaro a molti che non solo la zootecnia ma l’agricoltura resta il punto cardine del nuovo sviluppo con la novità qui di produzioni di pregio fino a ieri inimmaginabili: il pistacchio, ad esempio.

Ma non si pensi che le strutture culturali e artistiche di Tricarico, cospicue e che abbracciano grandi periodi storici e non solo quello arabo-normanno, stiano in buona salute. Accanto a valorizzazioni ammirevoli (tra cui il museo d’arte sacra), riattraversare il borgo e i suoi monumenti, e gli innumerevoli affreschi in chiese e conventi oltre che le strutture a partire dal «Centro studi su Rocco Scotellaro e la Basilicata degli Anni Cinquanta» e dal «Centro dei servizi sociali e culturali» (l’uno decadente e l’altro chiuso da anni) è un altro colpo al cuore per ciò che poteva essere e non è stato. Domande cruciali per il prossimo centenario.
La potente Torre normanna che fa da ingresso all’abitato è da tempo in attesa (vana) di accogliere la mostra permanente delle foto donate da grandi fotografi al paese (Tricarico, al pari di Matera, è stato un grande crocevia di artisti e intellettuali a partire dal dopoguerra): Henri Cartier-Bresson, Mario Cresci, Arturo Zavattini, Mario Carbone, Antonio Pagnotta e altri. Un’operazione che farebbe da apripista alla visita dei monumenti del luogo. Dal quartiere lascito della dominazione saracena agli archi e portali dal XV secolo in poi, alla Cattedrale, al valoroso museo d’arte sacra, ai conventi e chiese che sono pieni di affreschi spesso sconosciuti ai più. E poi il Palazzo Ducale con la pregevole mostra archeologica quasi sempre chiuso, i Palazzi di pregio (qualcuno sede di b&b) e le scoperte negli scantinati di vicoli e case chiuse divenute a volte sconosciute anche agli abitanti in una mortificazione delle cose del passato che Pasolini descrisse mirabilmente nel 1969 nel pezzo «Un bimbo non amato» («Se un bambino sente che non è amato incoscientemente decide di ammalarsi e morire: e ciò accade. Così stanno facendo le cose del passato, pietre, legni, colori»).

Ma, attenzione, perché si è raggiunto un livello di guardia non più tollerabile per tanti e i pessimismi cominciano a diventare non solo dannosi ma inutili. Al Sud c’è una resistenza sublime alla decadenza e all’umiliazione.

Rocco Calciano è un giovane panettiere che ha fatto parlare l’Italia per i suoi panettoni formidabili e di grande qualità. Lo incontriamo nel suo laboratorio dove lavora (15 dipendenti) alla produzione del prossimo Natale. Col fratello Ezio (34 e 35 anni) ha capito che il forno paterno andava rilanciato in grande stile immettendosi subito nel «mondo grande e terribile» con un processo di alta qualità e scambio con le migliori materie prime al mondo. Tutto è costato molta passione e insieme molta fatica con tante ore rubate al sonno e alla vita con gli amici. Oggi hanno commesse da tutta Italia e dall’estero. È un Sud vincente perché bravo e lavoratore ma soprattutto perché si è lasciato alle spalle qualsiasi complesso di inferiorità, vero dramma della psicologia sudista. Un Sud però che ha bisogno (in questo paese è sotto gli occhi di tutti) dell’altra cultura, quella artistico-simbolica, altrimenti resta monco. Insomma Tricarico ha tutte le carte in regola per capovolgere il clima odierno e rinascere come città d’arte e insieme di produzioni di pregio. Un connubio formidabile, basta abbandonare intellettualismi sterili da una parte e vecchi «nonsipuotismi» dall’altra. E se si rilancia in termini nuovi, cioè colto e popolare insieme, il «Centro studi su Rocco Scotellaro e la Basilicata degli Anni Cinquanta» può essere il luogo di raccordo di questo connubio nuovo, materiale e simbolico. Si tratta di riprendere in fondo ambizioni di anni lontani, naturalmente imparando dagli errori del passato e calando il tutto nell’attualità di questo periodo di passaggio: da Tricarico all’intera Valle del Basento e dall’Italia all’Europa.

La scuola fu uno dei cavalli di battaglia di Rocco Scotellaro. Ed è proprio al liceo intitolato a Carlo Levi che andiamo a sentire alcuni studenti. Esprimono senz’altro un desiderio di conoscere ma traspare dai loro linguaggi una scuola che spesso mortifica i ragazzi relegando l’arte (cioè la parte viva della cultura) a optional del tutto privato. Inutile dire che, nonostante la titolazione a Carlo Levi, il Cristo non si legge a scuola e Scotellaro, ahinoi, è del tutto sconosciuto. Perché? «Ho scoperto Carlo Levi dai miei genitori, non dalla scuola» dice Daniele «ma sono convinto che se la scuola prendesse l’iniziativa ci sarebbe una grande curiosità». Aggiunge Marcello: «Se la storia non insegna è semplicemente perché è insegnata male a scuola». Francesca mette il dito sulla piaga: «Se non ho avuto finora curiosità su Rocco Scotellaro è perché a scuola è del tutto assente». Uno spaccato non proprio esaltante quello del liceo nella patria di Rocco. Tuttavia nell’incontro traspare un desiderio nascosto di colmare questa lacuna e partecipare anche alle iniziative del centenario. Ci lasciamo con questo augurio che è forse anche un impegno. Non prima di aver ricordato la grandezza di un poeta morto a 30 anni che lasciava versi immortali come questi: «Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema / e la mia patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano».

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Un film su un disobbediente ispitato e colto: intervista a Alessandra Lancellotti
Alessandra Lancellotti, architetto e regista lucana con lavoro a Torino, ha esordito nel cinema con il film documentario Lucus a lucendo. A proposito di Carlo Levi assieme a Enrico Masi. Un film che ha segnato un percorso importante nell’universo di un artista ma anche in quello di una regione del Sud a cui si sente sempre più legata. Un viaggio che continuerà con lo sguardo su Rocco Scotellaro. A lei rivolgiamo alcune domande.

Dopo l’excursus nel mondo di Carlo Levi ora giri su Rocco Scotellaro. Perché?
Sì, certo, è stato Levi a portarmi a Scotellaro. Dopo Lucus a lucendo che io e Enrico Masi avevamo diretto per Caucaso, Luce-Cinecittà e Domvs nel 2019, i dibattiti in molte città ci hanno dimostrato che l’arte e la letteratura, la storia sociale e politica del Novecento, le sue grandi lacerazioni che oggi restano come segni sul territorio, sono temi meno impolverati di quanto si pensi. Esiste un pubblico per questi film, la nuova sfida è riuscire ad allargarlo fuori dagli specialismi. La motivazione più intima invece è una ricerca sulla mia identità. La relazione con la Lucania di Levi e Scotellaro, in particolare con il paesaggio rurale, ha radici profondissime nella mia storia familiare. Rocco Scotellaro rappresenta una lente unica sulla geografia contadina del secolo scorso. È un modello di artista e militante che rivela ancora qualcosa di noi, e, nella dimensione artistica del cinema soggettivo, il film mi permette di fare i conti con un territorio con cui ho un legame amoroso, conflittuale.

Pensi che la sua arte e il suo tipo di impegno sociale e politico possa dire ancora qualcosa al mondo di oggi, ai giovani di oggi?
Scotellaro è una rivelazione non per le vecchie generazioni, ma per chi oggi ha vent’anni. È stato un militante nei campi e sulla pagina. I giovani possono trovare in questo ragazzo un rivoltoso rarissimo, un disobbediente ispirato e colto che la storia ufficiale ha in parte nascosto. È così del resto che lo ha dipinto Carlo Levi nel Telero Lucania ’61. I temi del film sono diversi da quelli vissuti da Scotellaro, ma hanno una matrice comune. Lo spopolamento del sud e delle aree interne, ad esempio, ha radici nella disgregazione della civiltà contadina, ma anche nella fine del mito industriale che oggi non riesce a trattenere oltre i giovani in Italia. Cosa resta dell’epilogo di una società millenaria e degli esodi degli ultimi decenni è un paesaggio abbandonato e un profondo senso di sradicamento. Ma, mentre il paese si svuota delle sue risorse migliori, la terra resta fertile. Proprio i campi su cui lottava e di cui scriveva Scotellaro potranno tornare a essere oggetto di nuove visioni e il sud Italia essere un laboratorio di sperimentazione culturale e sociale.

L’essere entrambi, tu e Rocco, lucani ha un senso per questo «incontro»?
Il desiderio di questo progetto nasce proprio dalla persistenza della memoria. Passare, ad esempio, con un tram nella periferia torinese lungo la strada che gli è intitolata mi procura una commossa suggestione. Del resto, da molti anni lavoriamo in quel territorio alla scoperta dei borghi abbandonati della Riforma agraria del 1950. La loro storia è il punto di partenza per una rilettura del paesaggio minore, ordinario, dove ebbe luogo la vita e la militanza politica di Scotellaro.

Nello specifico, come in «Lucus a lucendo», userai ancora l’espediente del «Virgilio» che ti accompagna nella scoperta del personaggio?
Il senso di eredità è quanto più mi interessa anche in Scotellaro: come noi ci confrontiamo oggi con il suo lascito e che misura questo è indice della nostra identità. Non ci sarà un Virgilio, ma un nuovo dispositivo drammaturgico. Sul piano visuale intendo continuare a sperimentare, ma aumentando il rigore formale: filmare meno, aumentare l’uso della pellicola, dei processi artigianali e del materiale d’archivio, filmico e sonoro, a favore di un’archeologia dell’immagine. Non sarà un film esclusivamente biografico, o definitivo, su Scotellaro: spero sarà il primo film su di lui.

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Il caso: quando il poeta dovette difendersi dall’accusa di peculato
L’arresto per peculato di Rocco Scotellaro l’8 febbraio del 1950 e poi il rilascio, dopo 44 giorni di galera nel carcere di Matera, il 24 marzo, assolto con la motivazione esplicita di una congiura politica ai suoi danni, segna una data spartiacque per il poeta e sindaco di Tricarico.

Dopo le cose non saranno più come prima. Inizia per Rocco, aiutato anche da Manlio Rossi Doria, il progetto di allontanarsi dal paese per andare a studiare alla facoltà di agraria di Portici. Su quel processo è uscito un libricino di documentazione, ad opera del circolo La Scaletta, che raccoglie i documenti della difesa di Rocco da parte dell’avvocato Niccolò De Ruggieri. È uno spaccato di un’epoca. Accanto ai documenti giudiziari c’è una nota dell’avvocato Niccolò De Ruggieri scritta per la rivista Incontri meridionali. Scrive il De Ruggieri: «Conobbi Rocco Scotellaro in occasione della campagna per il referendum istituzionale ed ebbi modo di apprezzare il talento vigoroso e l’accesa sensibilità. Nonostante la differenza di età, i nostri rapporti si fecero sempre più cordiali, instaurando una consuetudine di amicizia, portata a livello di comunione spirituale». «La notizia dell’arresto fu per me terrificante. Gli offrii incondizionata la solidarietà di amico e l’impegno di avvocato». «Il processo confermò il mio giudizio perché l’istruttoria si esaurì in una artificiosa costruzione di addebiti, che fin dalle prime battute denunciarono la loro fallacia». La sentenza di assoluzione precisava che l’accusa «mal riusciva a nascondere il suo proposito di vendetta politica contro lo Scotellaro, capo di un partito politico che è riuscito a ottenere la maggioranza nelle ultime elezioni amministrative onde contro di lui, come suole avvenire nei piccoli centri, si appuntano gli strali dei suoi avversari personali e politici».

«Se il processo non ebbe storia – prosegue l’avvocato De Ruggieri – , dissolvendosi rapidamente nel nulla come tutte le cattive azioni fatue, fu impossibile a coloro che amarono Rocco Scotellaro dimenticare la sua carcerazione di 44 giorni, considerata come espressione di estrema nequizia». «Le mie visite in carcere furono molto frequenti…Rocco non si preoccupava del suo processo…Si muoveva in un’atmosfera ultrarealistica, quasi kafkiana, perché come Joseph K., il protagonista del Processo, egli era convinto che «al processo non si sfugge anche se non sappiamo né perché siamo processati né chi è il Giudice che deve giudicarci». «Un solo affanno quotidiano l’assillava: il dolore della mamma». «La sua gioia esplodeva incontenibile ogni qual volta gli portavo dei libri; si gettava su di essi con la ghiottoneria di un fanciullo». «Il giorno della scarcerazione mi portai da Rocco accompagnato dal dr. Mazzarone e da un sociologo americano». «Rocco Scotellaro, per noi lucani, rappresenta l’interprete più sensibile dei nostri secolari patimenti, che dall’opera letteraria dello sfortunato giovane scrittore di Tricarico mutuano le più sofferte risonanze».