L’Università al tempo del Covid, tra precarietà e burocrazia
Con l’approssimarsi della legge di bilancio, i critici si risvegliano, criticando un mondo che egregiamente svolge il suo compito, con pochi fondi e difficili condizioni di lavoro.
Con l’approssimarsi della legge di bilancio, i critici si risvegliano, criticando un mondo che egregiamente svolge il suo compito, con pochi fondi e difficili condizioni di lavoro.
In questi giorni si è celebrato un duplice anniversario. Per tanti ricercatori che a fine novembre 2010 salirono sui tetti delle università italiane, e in primis ad architettura a Roma, è stato l’anniversario di un momento di consapevolezza ed impegno, in cui si segnalò alla politica e alla società italiana ciò che stava avvenendo in Parlamento. La protesta fu accompagnata da quella degli studenti, che occuparono simbolicamente i monumenti vestiti di titoli di libri, che in tanti ricordiamo. La politica non volle ascoltare allora, né dopo il cambio di maggioranza, tanto che i decreti attuativi approvati negli anni seguenti chiarirono ulteriormente la direzione punitiva per l’Università italiana in cui si muoveva quella riforma.
Per le università è un anniversario nefasto, tristemente sottolineato dai numeri della pandemia, che confermano le ragioni di chi allora stigmatizzava la scelta di precarizzare la ricerca, di impoverirla, e quella di dare un’impronta aziendalistica alla gestione degli atenei. Scelta miope e contraddittoria, associata ad una burocrazia asfissiante che nessuna azienda introdurrebbe mai. L’università, con tutti i suoi difetti ed errori (tra cui sicuramente una tendenza all’autoreferenzialità), era comunità, in cui discussione, confronto e critica rappresentavano l’humus che fecondava pensiero critico e ricerca libera, e quindi una didattica più ricca. Oggi nelle università si discute al più di come assecondare in modo più zelante i dispositivi dell’agenzia di valutazione, onde migliorare la performance, producendo verbali che potranno piacere ai “valutatori”, un incubo orwelliano di cui spesso parliamo, ma che quasi nessuno cerca di interrompere.
C’è chi dice, come ha scritto Gianbattista Scirè su queste pagine, che le Università avrebbero troppa autonomia, ma non bisogna confondere abusi e malcostume nelle procedure concorsuali – su cui è giusto che la magistratura intervenga quando si verificano – con l’assetto costituzionale, legislativo e amministrativo da cui dipende l’organizzazione degli atenei. Ma del resto è frequente che, man mano che si approssima l’approvazione della legge di bilancio, i critici dell’università si risveglino, criticando un mondo che svolge egregiamente il suo compito, pur in presenza di finanziamenti largamente inadeguati e condizioni di lavoro sempre più difficili.
E così, puntuali ogni anno, in autunno compaiono editoriali contro “i baroni”, ed è singolare che le accuse che si leggono in tali articoli siano le stesse cui la legge n. 240 intendeva rispondere. Allora quelle minuziose prescrizioni contenute nella riforma, contrarie all’autonomia costituzionalmente garantita, a cosa servivano, se i baroni sono ancora lì, e ancora abusano dei loro grandi poteri? Spesso si dimentica che l’autonomia universitaria è posta dall’art. 33 Cost. a presidio della libertà di ricerca e di insegnamento. Autonomia non significa ovviamente irresponsabilità, né immunità dalle regole dello Stato di diritto, ma soltanto che i professori e ricercatori non debbano passare il tempo a dimostrare che lavorano compilando moduli, poiché se lo fanno, semplicemente non stanno lavorando, e sottraggono il loro tempo al fine del progresso della scienza e alla formazione delle nuove generazioni.
Da questo punto di vista il Covid dovrebbe averci insegnato qualcosa. Per quanto concerne la didattica, la gestione della pandemia ha visto l’incredibile silenzio da parte di istituzioni improvvisamente rispettosissime dell’autonomia degli atenei, interrompendosi quel flusso, sin qui inarrestabile, di prescrizioni dal ministero e dall’agenzia di valutazione, proprio quando il passaggio alla didattica a distanza prima, e il rientro in aula poi, avrebbero richiesto una gestione unitaria dell’emergenza almeno dal punto di vista delle precauzioni a tutela della salute, lasciando tutto al fai da te e alla buona volontà dei docenti (quanti sanno che la sicurezza sul lavoro riguarda anche la Dad?).
Nei policlinici, universitari e non, abbiamo visto in questo periodo i pronto soccorso tenuti in piedi da personale a tempo determinato. Allo stesso modo i laboratori di ricerca, affidati a persone che vivono con poco più di mille euro al mese. Il Covid sta mostrando tuttavia come la ricerca, se adeguatamente finanziata, possa galoppare e salvare il pianeta, e quanto sia importante per la collettività l’istruzione. Sarebbe ora di restituire all’Università il posto che merita, dopo dieci anni di sperimentazione di una pessima legge.
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