L’universale alle prese con l’identità
Storia delle idee «Gli Universali» di Etienne Balibar (Bollati Boringhieri) e «L’identità culturale non esiste» di François Jullien (Einaudi). Un percorso per riflettere sui nuovi nazionalismi e le sedimentazioni dei saperi
Storia delle idee «Gli Universali» di Etienne Balibar (Bollati Boringhieri) e «L’identità culturale non esiste» di François Jullien (Einaudi). Un percorso per riflettere sui nuovi nazionalismi e le sedimentazioni dei saperi
Max Stirner sosteneva, torcendo ruvidamente la lezione hegeliana, che anche l’Umanità è egoista poiché antepone il suo interesse particolare a quello dei singoli. Sarebbe l’egoismo, dunque, il solo principio che realmente pervade il tutto. Gli fa eco l’economia politica che pretende di equiparare le sue leggi, fondate sull’interazione degli interessi particolari, a quelle di natura che dell’universale incarnano, fin dalle origini, l’espressione più ferma, rigorosa e generalmente riconosciuta. Traendone così l’illusione, e il relativo prestigio, di aver realizzato una sintesi pratica tra universale e particolare. Qualcosa di più di quella estensione planetaria della ripetizione dell’«uniforme» che domina il regno delle merci e degli scambi, poiché alla «naturalità» dell’agire economico si ricollega la vigenza di un intero sistema di valori investito del compito di garantire nientemeno che il «progresso della civiltà».
È A QUESTA SINTESI che Marx oppone quella antagonista e contraria, fondata sulla classe e la sua potenzialità di emancipazione generale dalla «preistoria dell’umanità» e dall’universalismo predatorio e mendace della borghesia. Sul piano storico è qui che le disavventure concettuali e politiche dell’Universale entrano nella fase più critica e scottante. Ed è da qui che il discorso identitario, non certo scevro a sua volta da pretese universalistiche, muove alla riscossa.
Dei paradossi, degli equivoci e delle derive che intorbidano e corrodono gli «universali», dei quali, tuttavia, neanche il più deciso difensore del particolare riesce del tutto a liberarsi, Etienne Balibar tenta una accurata ricognizione nella raccolta di saggi e conferenze ora tradotta per i tipi di Bollati Boringhieri (Gli Universali, pp.160, euro 20).
Il nucleo del problema, già messo a fuoco dalla filosofia classica tedesca, è il fatto che l’universale può «realizzarsi soltanto nella forma di una identificazione discriminatoria che contraddice il suo stesso principio». Cosicché è destinato, come nella formula provocatoria adottata da Stirner, a funzionare come «una particolarità contro altre». Da questa contraddizione originaria discendono le esclusioni, le discriminazioni, le gerarchie, i rapporti di potere che costellano il cammino storico e teorico degli «universali» e che Balibar affronta appunto in quella pluralità che ne invalida le pretese totalizzanti e ne determina il conflitto.
La conseguenza più diretta che si deve trarre sul piano politico da questa constatazione è che l’Universale non può essere ascritto interamente né a una strategia di liberazione, né a una strategia di dominio. Dalle teorie della differenza al cosmopolitismo di matrice illuminista, tutti devono fare i conti con questa ambivalenza, con la possibilità sempre incombente che il concetto si rovesci nel suo contrario. Anzi, che inevitabilmente lo contenga.
A PARTIRE DA QUI muovono le diverse strategie che si propongono di salvare gli «universali» da sé stessi, più o meno direttamente discendenti da quella matrice hegeliana che proietta la contraddizione nel processo dialettico dello spirito. Rinunciando però ad ogni tentazione hegeliana di compimento, queste strategie preferiscono interpretare gli universali come un confine mobile, un «tendere a», un campo di tensioni, una «cosa in sé» mai interamente attingibile, un processo mai definito. Tutti elementi che poggiano sulla distinzione tra l’Universale che si staglia come un fine e le prepotenti «verità» affermate dai diversi universalismi.
Il discorso del filosofo francese sugli «universali» mostra gli stessi caratteri erratici, mobili e inconclusi (ma tutt’altro che politicamente inconcludenti) di quello che dedica alla democrazia intesa come un continuo spostamento della sua estensione, della sua intensità e della sua articolazione. Laddove l’analisi critica delle diverse interpretazioni si apre su campi di ricerca inesplorati e ulteriori interrogativi. Dunque universali e particolarità funzionerebbero come reciproci strumenti di critica utili a mettere in luce ambivalenze e contraddizioni che segnano gli uni e le altre. Non sempre, tuttavia, conviene attenersi al prudente equilibrio di un’analisi critica attenta alle ragioni di tutti. È infatti il campo delle «particolarità» confliggenti quello che desta nel tempo presente le maggiori preoccupazioni.
Il particolare, soprattutto nelle versioni identitarie, nazionaliste o comunitarie, oggi in espansione, si mostra ben più feroce nel reprimere le diverse singolarità che lo abitano degli «universali» accusati di astrattezza e lontananza. Omogeneità, purezza, e imposizione di una tavola indiscutibile dei «valori» costituiscono la cifra dominante e oppressiva di quella «totalità» identitaria che il popolo dei populismi viene incaricato di rappresentare e nel cui corpo la libertà dei singoli tende a scomparire. Cosmopolitismo assume così i tratti di una bestemmia se non quelli dell’ideologia che maschera gli appetiti inestinguibili della finanza globale, contrapposta sbrigativamente all’interesse nazionale.
L’argine correntemente chiamato a contrastare il potere uniformante del mercato è l’«identità culturale», che un breve testo di François Jullien, recentemente tradotto, si dedica a smontare (L’identità culturale non esiste, Einaudi, pp. 87, euro 12). La tesi del sinologo e grecista francese (un connubio che ha sempre prodotto risultati sorprendenti) è abbastanza lineare. Anche Jullien muove dalla condizione di difficoltà in cui versa quel concetto di universale che ha fatto da motore allo sviluppo culturale d’Europa nelle espressioni che si sono storicamente succedute e fuse (l’universale greco del concetto, quello romano del diritto e quello cristiano della fede) e che hanno reso il Vecchio continente, anche in quanto preteso depositario e custode dell’universale, un potere egemonico che si riteneva legittimato a imporre con la forza i suoi propri «valori».
QUESTA EGEMONIA è andata evidentemente perduta negli attuali assetti planetari e con essa la forma dell’universale che si voleva totalizzante e compiuta. Come nell’argomentazione di Balibar, anche qui l’invito è a pensare l’universale in contrapposizione all’universalismo, come processo aperto e mai appagato. Come un campo nel quale il «Comune», inteso come sfera politico-culturale della libera condivisione, possa allargarsi. Anche il «Comune», infatti, non è indenne, come il particolare e l’universale, dalla patologia dell’esclusione, dalla chiusura nei confronti di un fuori ritenuto minaccioso e alieno. Dal rischio, insomma, di precipitare nella dimensione oppressiva e delimitante del comunitarismo. Esso implica e coltiva tuttavia un elemento di soggettività operosa, di costruzione politica collettiva, non sempre e necessariamente sotto il segno dell’armonia, che lo mette in attrito tanto con lo spirito ereditario e proprietario dell’«identità» quanto con l’imperativo categorico dell’Universale.
Ma non vi è dubbio che è solo in quest’ultimo campo, appunto, quello dell’Universale incompiuto, che la costruzione del Comune può trovare uno spazio politico condiviso ed espansivo che rispetti l’autonomia delle singolarità. Per dirla in termini politici la costruzione del comune non può che avere caratteri antinazionali in quanto rottura della falsa unitarietà della nazione.
PER ACCEDERE A QUESTA dimensione Jullien propone un riposizionamento concettuale nella contrapposizione tra «differenza» e «identità», riconducendo la prima alla nozione di «scarto» (distanza invece di distinzione, esplorazione invece di identificazione) e la seconda a quella di «risorsa», intendendo con questo l’insieme di elementi culturali e concettuali che si sono prodotti in un determinato luogo e nella storia, fitta a sua volta di scarti e contaminazioni, di una determinata collettività. Ma di quest’ultima essi non costituiscono il possesso o il segno di distinzione in una qualche gerarchia delle culture, bensì una sedimentazione di saperi e di esperienze alla quale, in tutto o in parte, chiunque può fare ricorso, attivandola e mettendone in movimento le potenzialità. Come nel caso della conoscenza si esce qui dal campo dell’appropriazione per entrare in quello dell’apprendimento, dell’uso comune.
L’INTERPRETAZIONE della pluralità culturale nei termini di uno scarto o di una distanza mira ad istituire quella dimensione del «tra» che mette in tensione e in movimento le diverse prospettive culturali impedendone il ripiegamento e inducendo una relazione nei confronti dell’altro. In questo Jullien ravvisa la vocazione etica e politica dello scarto. Questo spazio del «tra» può essere facilmente ricondotto a quell’Universale aperto, incompiuto e dinamico, nel quale il Comune può espandere la sua sfera di condivisione.
MA IN UN TEMPO dominato dal ripristino delle identità nella forma più vanagloriosa, aggressiva e impermeabile ad ogni argomentazione razionale, quale quello che stiamo vivendo, questo allargamento non può che compiersi nella forma di una dissidenza radicale. Di un punto di vista che, in nome della comprensione, non può però comprendere tutto. François Jullien conclude il suo pamphlet invitando a tenersi fuori «dalla sottomissione e, in primo luogo, dalla sottomissione alla Storia». Resistere all’uniformazione e all’identitario che ci minacciano. Ma «tenersi fuori» non è mossa sempre pacificamente concessa. La porta della gabbia non è aperta e per uscirne può essere necessario passar sopra la «particolarità» dei guardiani che la sorvegliano.
QUELLA DELLE CULTURE non è solo una storia di scarti, ma anche di violenze e sopraffazioni. Tra le «risorse» che esse hanno prodotto nel corso della storia vi sono anche numerose armi letali, materiali e immateriali, alle quali oggi vediamo fare abbondante e spregiudicato ricorso. Forse non basterà a combattere questa violenza, ma la demistificazione dell’ideologia identitaria resta un punto di partenza decisivo per contrastarne la diffusione tra quanti credono di trovarvi protezione. E il testo di Jullien vi riesce davvero egregiamente.
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