Non c’era traccia, ieri in Senato, del pathos dell’agosto 2019, quando la crisi del Conte 1 si squadernò direttamente sui banchi del governo, col premier che appoggiava la mano sulla spalla del suo ministro dell’Interno per incenerirlo, «Caro Matteo, la tua concezione dei pieni poteri mi preoccupa…».

Ieri l’aria era distratta, annoiata. Draghi non si è mai visto, sui banchi del governo il deserto: spuntava solo il ministro M5S D’Incà (che ha chiesto la fiducia che lui stesso per tutta la mattina aveva cercato invano di evitare), la sottosegretaria Cecilia Guerra e un paio di altre seconde file. «Governo fantasma», ha avuto buon gioco il meloniano Luca Ciriani, l’unico sicuro della parte che avrebbe dovuto recitare, insieme a Paola Nugnes di Sinistra italiana, senatrice della piccola opposizione di sinistra.

Colpiva l’aria di smobilitazione, di wrestling, lotta senza passione. Colpivano i tre M5S in guerra fra loro. Gli espulsi di Cal, cacciati perché non votarono la fiducia a Draghi nel 2021, gongolavano: «Noi ve l’avevamo detto». Gli scissionisti di Di Maio, ancora col dente avvelenato: «Chi sta inseguendo interessi di partito, sta vigliaccamente girando le spalle al paese, è un comportamento politicamente irresponsabile di cui si dovrà rendere conto», attacca il capogruppo Primo Di Nicola, rivolto a quelli che fino a un mese fa erano i suoi compagni di partito. E poi il M5S originale, o superstite, col discorso barricadero della capogruppo Castellone, molto critico contro il governo, fino alla frase finale del fatidico annuncio: «Non partecipiamo al voto, ci sottraiamo alla logica della fiducia».

E poi Renzi, che fa Renzi, e prende a pallonate D’Incà: «Ha appena chiesto una fiducia che il suo partito non voterà. C’è un limite alla decenza». Applausi anche dai banchi del Pd, nella scomodissima posizione di dover difendere Draghi senza infierire sugli alleati M5S, e senza rompere con la sinistra, visto che la capogruppo di Leu Loredana De Petris si unisce ai grillini e non vota la fiducia, contro il termovalorizzatore di Roma. E poi c’è Vasco Errani, il braccio destro di Bersani, che scandisce col tono da saggio amministratore emiliano: «Se siamo onesti dobbiamo dirci che la responsabilità della situazione difficile in cui ci troviamo non sta da una parte sola. Capisco le difficoltà del M5S, ma sbagliano a non votare».

Per il campo progressista è un giorno amarissimo, mentre Forza Italia e Lega fanno asse coi renziani. E partono applausi congiunti quando la forzista Anna Maria Bernini, da consumata torera, provoca i grillini. «Il Movimento delle origini vi urlerebbe un grande “V…”, non votate la fiducia ma restate imbullonati alla poltrone e alle auto blu». Urla dai banchi 5S, i senatori di centrodestra gridano «A casa, a casa». «Vacci tu!», la replica pentastellata. Chiedono aiuto alla presidente Casellati per frenare Bernini, niente da fare.

Il clima di unità nazionale, pur tenuta insieme per un anno e mezzo con la colla, è svanito. Nessuno, a parte i dem, difende davvero il governo. Prevalgono le botte reciproche. Renzi cita Draghi solo per ribadire che «abbiamo fatto bene a metterlo al posto di Conte». La capogruppo Pd Simona Malpezzi è l’unica a elogiare «un premier autorevole che ha una grande credibilità sul piano internazionale e che è una garanzia per il nostro Paese». E giù con gli appelli alla responsabilità, «qui stiamo votando 20 miliardi di aiuti, poteva essere una bella giornata, dovremmo esserne tutti fieri». Coi grillini usa il guanto di velluto: «La loro è una scelta sbagliata che non ci lascia indifferenti».

Per la Lega tocca a Paolo Tosato: «Sostenere questo governo non è facile, è una scelta dettata dalla necessità, se non ci sono più le condizioni si torni al voto». Se Draghi martedì aveva sciabolato chi «si lamenta che stare al governo è una sofferenza», eccolo servito. Maggioranza agli stracci, standing ovation dei senatori S5 dopo l’intervento liberatorio di Castellone, clima da fine stagione. Calderoli se ne accorge: «Colleghi, vi ricordo che non è l’ultimo giorno di scuola…».