Cultura

L’unità di misura della buona società

L’unità di misura della buona societàUn manifesto per il Primo Maggio

Saggi «Le ragioni del reddito di esistenza universale» di Giacomo Pisani per ombre corte. Strumento a tutela dei disoccupati, ma anche leva per redistribuire la richezza prodotta. Ma sopratutto una proposta adeguata per contrastare le attuali caratteristiche del capitalismo

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 3 maggio 2014

Sul tema del reddito di cittadinanza (meglio reddito di base) la letteratura è oramai ampia. E diversi sono i punti di vista con cui tale proposta viene esaminata e vagliata. Spesso, la tematica viene affrontata anche per negare tesi altrui. Non fa eccezione a questa regola il breve pamphlet di Giacono Pisani: Le ragioni del reddito di esistenza universale (ombre corte, pp. 91, euro 10).

Il punto di vista qui prevalente è quello filosofico-giuridico e si colloca all’interno di quella vasta letteratura che trae origine, da un lato, dal noto libro del filosofo statunitense John Rawls sulla teoria della giustizia, dall’altro, dalla giustificazione della proprietà privata a partire dal contributo di Locke.

Secondo l’autore, la giustificazione primaria di un reddito di esistenza universale sta nella sua (potenziale, n.d.r.) capacità di liberare l’individuo dal ricatto della povertà e riconoscere, così, la dignità della persona al di fuori dal mercato: è dunque, strumento di emancipazione degli individui, in grado di tradurre diritti formalmente in essere in diritti direttamente esigibili. In questo sta la «giustizia sociale» del reddito di esistenza universale: nel porre gli individui nella condizione di poter decidere e progettare la propria esistenza.

In secondo luogo, il reddito di base rappresenta una sorta di risarcimento (indennizzo) della proprietà privata. Poiché non tutti gli esseri umani possono accedere alla «proprietà privata», in quanto tale possibilità è solo ad appannaggio di chi detiene forme di potere e capacità di espropriazione unilaterale e discrezionale in grado di generare forme di enclosures, il reddito di base consentirebbe di ripagare l’ineguaglianza generata dal diseguale accesso alla stessa «proprietà privata».

Lo sviluppo di forme moderne di enclosures su ciò che oggi viene definito il «comune» (da non confondersi con i beni comuni: ricordiamo che il reddito di base è remunerazione del comune, non semplice riappropriazione dei «beni comuni») è anche una delle ragioni che meglio possono giustificare, stavolta sul piano più strettamente economico, la necessità e la giustizia di un reddito di base che deve per forza fregiarsi dell’attributo: «incondizionato».

Se è vero che nel bio-capitalismo cognitivo contemporaneo il processo di valorizzazione si basa sull’espropriazione della cooperazione e della produttività sociale che emerge dalla messa al lavoro della stessa vita degli individui, della loro capacità di apprendimento e della loro stessa attività relazionale (appunto il comune), allora oggi non ci troviamo solo di fronte alla necessità di indennizzare l’esproprio e la violenza della proprietà privata, ma anche di remunerare il valore economico che lo sfruttamento di tale cooperazione sociale genera.

Da questo punto di vista, lungi dunque dal poterlo considerare come una sorta di ammortizzatore sociale (come alcuni fanno), il reddito di base (solo se è incondizionato) costituisce così uno strumento che favorisce la possibilità di opporsi a un ordine sociale fondato su una «razionalità» del mercato che invece nasconde una sostanza di espropriazione e sfruttamento della vita umana. Ciò consentirebbe di pensare a uno stato sociale non più condizionato dal solo tempo di lavoro certificato (e quindi remunerato), dal momento che esso non può più essere considerato come l’unica e prevalente fonte di valore.

Su questo punto Pisani svolge una critica che vale la pena di essere discussa. Egli afferma che l’idea di un reddito di base come semplice remunerazione in grado di restituire quella rendita che il capitalismo è in grado di estrarre ex post dalla capacità autonoma di organizzazione del lavoro-vita odierno si muove in un’ottica troppo «economicistica», per di più non in grado di incidere direttamente sul rapporto capitale-lavoro che sta alla base del processo di valorizzazione. Tali limiti impedirebbero, secondo Pisani, di individuare nella battaglia per il reddito di esistenza una sorta di grimaldello con il quale scardinare alcune categorie della moderna teoria sociale del diritto, per aprirla a una dialettica del riconoscimento che assuma il diritto come continuamente esposto ai rapporti sociali.

Occorre considerare, tuttavia, che se il processo di accumulazione oggi si basa sulla messa a valore della vita, il «divenire rendita del profitto» (secondo la felice espressione dell’economista Carlo Vercellone) è semplicemente la fenomenologia della creazione di ricchezza e la sua misura indiretta. Tanto è vero, che se il reddito di base (incondizionato, lo ribadiamo per liberarci da altre interpretazioni fuorvianti) consente di esprimere il diritto alla scelta del lavoro come espressione della propria auto-determinazione, esso diventa anche potenzialmente sovversivo, in grado di opporsi alla dinamica dello sfruttamento bioeconomico che oggi caratterizza il rapporto capitale-lavoro.

Da questo punto di vista, il libro di Pisani si presta a una duplice e felice interpretazione e dà man forte alla battaglia per un reddito di base incondizionato: alle ragioni di giustizia socio-filosofica si sommano quelle di natura economica. I due piani sono oggi del tutto interdipendenti e mettono in crisi quelli che sono i pilastri del sistema capitalistico di produzione: la proprietà privata, da un lato, come fonte della diseguaglianza moderna, e il rapporto di sfruttamento che dal rapporto capitale-lavoro tende assumere sempre più le forme del rapporto capitale-vita. Non a caso si parla di reddito di «esistenza».

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