Lunìk IX, il ghetto che non esiste
Slovacchia Nella città slovacca di Košice l’esclusione dei rom, confinati in quello che un tempo era un normale quartiere di palazzoni per operai, è ormai istituzionalizzata. E al vecchio pregiudizio si è aggiunta la nuova furia sovranista dell’estrema destra
Slovacchia Nella città slovacca di Košice l’esclusione dei rom, confinati in quello che un tempo era un normale quartiere di palazzoni per operai, è ormai istituzionalizzata. E al vecchio pregiudizio si è aggiunta la nuova furia sovranista dell’estrema destra
Per gli abitanti di Košice, Lunìk IX semplicemente non esiste. O meglio, non esiste più da almeno trent’anni. Prima era un quartiere come tanti altri. Palazzoni popolari destinati a operai e impiegati pubblici. Rom o slovacchi, non importava. Il comunismo aveva bisogno di proletari, non di etnie. Quando il mondo celebrava la caduta del muro di Berlino, intorno a Lunìk IX venivano eretti degli altri muri che forse non erano mai stati abbattuti realmente.
Fu il comune di Košice a prendere la decisione. A Lunìk IX dovevano essere deportati tutti i rom, quelli che abitavano nelle case diroccate del centro e quelli fuggiti nelle foreste attorno alla città per sottrarsi al socialismo di Stato, quello del lavoro nelle fabbriche e nelle cooperative agricole. Allora gli slovacchi fecero le valigie da Lunìk IX e quello che era un quartiere come tanti altri divenne un ghetto rom, il più grande dell’Europa dell’Est.
A LUNÌK IX L’ESTATE è una melodia gitana che rimbomba tra i palazzoni fatiscenti. C’è chi si bagna al fiume che scorre vicino al quartiere, chi si gode l’ombra degli alberi che inghiottono le case. E poi un pigro andirivieni senza direzione e le urla dei bambini che giocano tra cumuli di spazzatura. Un tanfo pesante rende l’aria irrespirabile.
Dal ventre di un palazzone sbuca Marcel, occhiali specchiati e sneakers ai piedi. Sono segni di distinzione i suoi. M, 26 anni, da otto vive in Inghilterra. A Birmingham ha trovato quello a cui i rom qui non possono aspirare: una casa dignitosa, un lavoro come magazziniere, una scuola per i suoi quattro figli. «Nessuno, racconta Marcel, mi faceva lavorare, non avevo altra scelta. Per loro non siamo che criminali e parassiti».
TRA I LOCULI INFERNALI di Lunìk IX di anime dannate se ne aggirano tante. Maria ha appena 32 anni, ma il corpo esile e il viso scavato dalle rughe gliene fanno sembrare una ventina in più. Ha cinque figli da mantenere e nessuno che l’aiuti. Qualche soldo lo racimola facendo le pulizie. E quando i soldi non ci sono e la fame diventa insopportabile, l’unico rimedio è sniffare colla e alleviare così la sofferenza sua e dei suoi bambini. Il più piccolo ha solo tre anni.
Per la maggior parte delle persone che abitano a Lunìk IX, circa ottomila, la vita inizia e finisce qui. Eppure per i rom l’isolamento è questione secondaria. Col tempo quella quarantena è diventata la normalità. Una normalità che si apprende fin da piccoli a scuola, dove è prassi separare i bambini rom da quelli di altre etnie. Ogni altra opzione sembra impossibile. Nella scuola di Sarisse Michalany ad esempio si è tentato di creare delle classi miste. Risultato: i genitori dei “non rom” hanno trasferito i loro figli in un altro istituto.
SPEZZARE UN PREGIUDIZIO è un atto umanamente destabilizzante. Così le storie di integrazione che pure esistono, rimangono spesso sotto traccia. È il caso della Whirlpool che grazie a una partnership con una ong locale che “educa” i rom al lavoro salariale, ne ha reclutato un discreto numero nello stabilimento di Poprad. Eppure è la stessa azienda a non sponsorizzare le proprie politiche, come se dei rom bisognasse continuare a credere che sono pigri, che non lavorano, che rubano.
Il caso Whirpool non è peraltro marginale. Negli ultimi anni l’aumento dell’emigrazione degli slovacchi in Europa occidentale e la crescita economica del Paese hanno creato nuove opportunità di impiego per i rom, soprattutto per i più giovani. Ma questo tema resta un taboo.
«APARTHEID» È IL TERMINE utilizzato da Daniel Skobla, ricercatore all’Istituto di Etnologia e antropologia sociale dell’Accademia slovacca delle Scienze, per definire la politica di Bratislava nei confronti dei rom.
«È un pregiudizio, spiega Skobla, che perdura nel tempo ed è talmente radicato da essere istituzionalizzato» spiega il ricercatore che porta ad esempio la differenza tra il Plenipotenziario per le minoranze nazionali e quello per le comunità rom, il primo facente capo al ministero degli Esteri, il secondo a quello degli Interni. Una scelta eloquente con cui si cristallizza un messaggio: i rom costituiscono un problema di sicurezza.
«In questi anni – prosegue il ricercatore – ci sono stati alcuni progressi sul piano legislativo, come il riconoscimento delle minoranze etniche in Costituzione, ma nella pratica la strada è ancora molto lunga».
INESISTENTI sul piano sociale, i rom non esistono di riflesso nemmeno sul piano politico. Non nei programmi né tra i rappresentanti. «Nessun partito di nessuno schieramento affronta la questione rom, farlo equivarrebbe a un suicidio politico – sottolinea Skobla -. Non ci sono poi partiti politici o deputati di etnia rom, solo amministratori locali, troppo pochi rispetto al mezzo milione di rom che vive in Slovacchia».
Negli ultimi anni la furia sovranista si è abbattuta con violenza sui rom. I segni tangibili della campagna d’odio li vedi dappertutto. Nei volantini che promuovono la sterilizzazione dei rom, nelle ronde sui treni organizzate da Marian Kotleba, leader del partito neofascista «La nostra Slovacchia». E ancora nei muri – quattordici, secondo lo European Roma Rights Centre – eretti per rimarcare la distanza con le comunità rom.
A LUNÌK IX basta attraversare la strada per scorgere quell’abisso. Nel quartiere adiacente il filo spinato orna i balconi delle case. Poco distante uno dei muri della vergogna costruito per proteggere un parcheggio dai «furti degli zingari». Era il 2013, l’anno in cui Košice era capitale europea della cultura.
«C’è un razzismo strisciante, velato che riaffiora nei commenti sprezzanti della gente comune, anche di quella più istruita – attacca Slava Macakova, presidente dell’ong ETP Slovensko -. C’è poi un altro tipo di razzismo, manifesto, fatto di intimidazioni e abusi di potere». Un razzismo dal volto feroce esploso con violenza durante il blitz della polizia nell’insediamento rom di Moldova nad Bodvou nel giugno di sei anni fa. Un blitz il cui unico scopo, secondo Macakova, era dare una lezione ai rom.
QUELLA NOTTE 63 POLIZIOTTI avevano fatto irruzione nel campo rom formalmente per un’indagine relativa ad alcuni furti. Poi la situazione era degenerata: perquisizioni senza mandato, manganellate, arresti arbitrari. Il ministro degli Interni Robert Kalinák ha ordinato un’indagine interna, ma nessuno dei rom è stato ascoltato. Al contrario sono state raccolte le lamentele dei “non rom” contro l’«arroganza» e il «comportamento inappropriato» dei rom.
A nulla sono valse le denunce dell’Ombudsman slovacco e dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Gli episodi di quella notte restano tuttora impuniti, dalle istituzioni non sono arrivate nemmeno delle scuse di circostanza.
I ROM CHE AVEVANO denunciato le violenze della polizia sono stati prima minacciati e poi denunciati a loro volta per falsa testimonianza. Nel processo in corso l’ong di Macakova offre assistenza legale ai rom, ma «è difficile fare giustizia, commenta, alcuni tra loro hanno ritirato le denunce per non avere altri problemi. C’è una frase pronunciata dal ministro degli Interni che sintetizza bene l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti dei rom: “Non mettete sullo stesso piano polizia e rom”. Non mi pare ci sia nient’altro da aggiungere».
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