Gigantesca. Trionfale. La monografica dedicata a Ivan Meštrovic (1883-1962) in occasione dei 140 anni dalla sua nascita, visibile ancora oggi alla Klovicevi dvori gallery di Zagabria, è un evento eccezionale, che non trova molti termini di paragone: oltre duecento sculture, molte di dimensioni monumentali, sono distribuite per i tre piani dell’ex monastero dei Gesuiti, in un percorso che prevede sia l’emozionante isolamento di singoli pezzi in ambienti di medie dimensioni, sia il raggruppamento di tante creazioni in grandi saloni, in una piena restituzione della strabordante creatività del maestro croato.

Il risultato lascia storditi e felici, ed è una festa, si direbbe, di tutta la nazione: in una città di meno di ottocentomila abitanti, la mostra attira una media di 500 visitatori al giorno, con picchi di 2000 durante il fine settimana. Meštrovic è un eroe nazionale, al quale non a caso sono dedicati diversi musei, tra cui bellissimi quelli di Zagabria – chiuso dal terremoto del 2020 – e Spalato (la villa affacciata sul mare nella quale visse a lungo: un trionfo di quella mediterraneità celebrata dallo scultore nei suoi scritti), dai quali proviene la gran parte delle opere esposte alla mostra.

Ma i prestiti importanti dal Belvedere di Vienna, dalla Tate di Londra e dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma attestano della statura internazionale di Meštrovic, che ebbe una carriera lunga e piena di successi. Anche perché lo scultore viaggiò molto, e nella mostra si specifica sempre dove l’opera venne realizzata, se a Vienna, Londra, New York, o Roma, dove Meštrovic soggiornò più volte, ad esempio tra il 1944 e il 1946, quando vi realizzò una delle sue opere più celebri, la Pietà oggi in Indiana, USA. Al Palazzo Reale di Milano si tenne nel 1987 una retrospettiva, e più di recente, nel 2013, un’altra è stata organizzata al musée Rodin di Parigi, e una imponente lo scorso anno alla Galleria Nazionale di Praga: ma la statura d’artista di Meštrovic non è ancora sempre riconosciuta fuori dalla Croazia, e nel suo Paese egli è forse più idolatrato che studiato nel contesto della sua epoca: esiste, sì, un profluvio di pubblicazioni su di lui, ma tanto nel catalogo della mostra (a cura di Iva Sudec Andreis, anche in inglese) quanto nei pannelli del percorso, manca un dialogo con i suoi interlocutori e una necessaria messa a fuoco di alcune cesure fondamentali della sua carriera: sta al visitatore ripercorrendo in ordine cronologico cinquant’anni di produzione artistica, individuarli e apprezzarli.

All’inizio, al secondo piano, si doveva ad esempio sottolineare come il primissimo Meštrovic, soprattutto nei ritratti, non è lontano da un artista come Troubetzkoy: la magmatica ricchezza del bronzo è la stessa, così come l’inclinazione a un decorativismo superficiale da Belle Époque. Contemporaneamente, però, c’è la progressiva adesione alla Secessione viennese, alle cui mostre lo scultore partecipò a partire dal 1903. L’anno prima, intanto, era anche avvenuto il fondamentale incontro, sempre a Vienna, con il già mitico e venerato Rodin, che di Meštrovic ebbe a dire: «è il più grande fenomeno tra gli scultori d’oggi». E così la Fontana di Vita in bronzo del 1905, poi acquistata dalla città di Zagabria e collocata di fronte al Teatro Nazionale (in mostra è esposto un calco), è una felice fusione del naturalismo di Rodin con il simbolismo di Klimt.

Ivan Meštrovic, “Arcangelo Gabriele”, part., 1918, Zagabria, Atelier Meštrovic

La fama dell’artista cresceva rapidamente e, grazie al supporto dei Wittgenstein, nel 1908 egli visitava Parigi per la prima volta – di quell’anno è il notevole Ritratto di Leopoldine in granito. Nel 1910 iniziava a lavorare al ciclo di Kosovo, per il quale progettava anche la cornice architettonica: quell’impresa non sarebbe stata portata a termine, ma in seguito egli avrebbe più volte lavorato su una scala monumentale, addirittura epica (alle commissioni pubbliche più importanti, ricostruite attraverso riduzioni in piccolo in bronzo e materiali fotografici, è dedicato il primo piano della mostra).

Nel 1911 era protagonista del padiglione del Regno della Serbia all’Esposizione Internazionale di Roma, con la presentazione dei modelli di un altro ciclo, quello di Marko, facendo ancora grande impressione: Selva e Martini, tra gli altri, rimasero colpiti dall’inedita mistura di classicismo e primitivismo di Meštrovic – Martini sentiva che c’era qualcosa di ‘barbaro’ nel suo linguaggio. Il contatto con l’Urbe, dove trascorse due anni, fu fondamentale per l’artista, che poté approfondire la sua conoscenza della scultura antica, in un dialogo sempre fertile: la Ballerina del 1912, in marmo, è un’opera di grande originalità, che se non fosse ancorata a una datazione precisa si sarebbe tentati di leggere in chiave Déco.

Nella mostra di Zagabria questo aspetto della carriera di Meštrovic non è sufficientemente indagato: il ruolo di precursore del nuovo stile è stato da tempo riconosciuto allo scultore croato, soprattutto dalla critica italiana, ed è proprio all’inizio del secondo decennio del secolo che si apre il momento più fertile della sua produzione. Anche del Ritorno all’ordine Meštrovic è un precursore e un grande esponente, senza che mai in lui si avverta la programmaticità di una scelta che sembra essere solo la naturale evoluzione del suo percorso: l’Arcangelo Gabriele in bronzo del 1918 – ma ne esiste anche una versione in marmo al Brooklyn Museum – è di nuovo un’opera che stupisce il pubblico prima di tutto italiano, che vi ritrova così tanto del linguaggio non solo di Martini, ma anche di Wildt.

La critica croata, ma anche francese, ha in genere letto questo momento di Meštrovic in relazione ai francesi Bourdelle e Maillol, coi quali egli fu certamente in rapporto, anche personale, ma la curiosità prensile di Meštrovic, che non è mai eclettismo, andava in tante direzioni diverse, rivolgendosi anche e soprattutto al passato, non solo a Michelangelo – un suo eroe dichiarato e spesso omaggiato – ma anche a Donatello (bellissimi i rilievi che ne riprendono lo stiacciato), ai Greci, e agli Egizi, agli Assiri.

Questa inesausta esplorazione del passato veniva portata avanti mentre molte delle voci più vive della scultura europea, da Moore ad Archipenko a Brâncusi, avevano da tempo trasceso o abbandonato del tutto la figuratività; Meštrovic, al contrario, negli anni trenta e quaranta sempre più spesso affrontava temi religiosi, con una drammaticità a volte urlata (quasi spaventa il Giona del 1946), recuperando l’espressionismo di Barlach, ma forse anche la plastica gotica. Il confronto con la tradizione passava anche attraverso la padronanza di tutte le tecniche, attraverso cioè un mestiere praticato in prima persona, prendendo in questo senso le distanze da Rodin.

Nella mostra i bronzi fanno la parte del leone, ma sono numerosi anche i marmi, i gessi, e splendide sono le sculture in legno, laddove sono del tutto assenti le terrecotte, quasi il maestro passasse subito dal disegno al marmo o al modello da fondere. Certo Meštrovic non lavorava sempre da solo come il suo eroe, Michelangelo, ma egli seguiva personalmente anche il lavoro sui bronzi maggiori. I due colossali Indiani a cavallo di Chicago furono realizzati a Zagabria, in una fonderia che venne approntata per tenere dietro alle importanti commissioni pubbliche di Meštrovic, e di lì spediti negli Stati Uniti nel 1928. Ma basta andare a Spalato, e sostare sotto i quasi nove metri del Gregorio di Nona (1929) subito fuori il Palazzo di Diocleziano, per vedere bene come magniloquenza e potenza potessero allora coniugarsi ancora, in un’invenzione di ammirevole sintesi, senza scadere nella retorica della scultura di regime della Russia sovietica.