Italia

L’unica grandiosa sepoltura è quella dei crimini nazisti

L’unica grandiosa sepoltura è quella dei crimini nazistiErich Priebke in divisa

Impuniti Kappler, «il monco maledetto», il boia delle Fosse Ardeatine e tutti gli altri. La Germania li protegge, l’Italia fa finta di niente. Malgrado quella confessione agghiacciante: «Un colpo all’inizio, un altro alla fine»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 16 ottobre 2013

L’Italia è stata sempre di manica larga, a dir poco, con i nazisti (e figurarsi con i fascisti, assolti senza processo). La prima grandiosa sepoltura dei crimini commessi tra il ‘43 e il ’45, avviene nell’immediato dopoguerra: 695 fascicoli di stragi, in 415 dei quali già si conoscevano i nomi degli assassini, risale all’immediato dopoguerra. «L’armadio della vergogna», come lo definii, rimarrà chiuso per 50 anni. Ma qualcosa sfugge anche al più assoluto e oculato silenzio.

il caso degli assassini di Rodi le cui imprese potrebbero ben figurare in un libro degli orrori. Il comandante di quella piazza conquistata dai nazisti, subito dopo l’8 settembre, il generale di fanteria Otto Wagener, verrà condannato a 15 anni di reclusione, a pene minori i suoi otto sottoposti. Ma, incredibilmente, protetti dal silenzio più assoluto, se ne potranno tornare subito dopo il processo, alle loro case. Non si conoscono date, nelle carte dell’armadio non figurano. Il provvedimento di grazia è firmato da Luigi Einaudi, presidente della Repubblica dal ’48 al ’55, presidente del Consiglio è Alcide De Gasperi, lo stesso cui si deve la sepoltura dei fascicoli dei massacri nazifascisti. Al di là dei nostri confini c’è la Germania guidata da Konrad Adenauer: lui insiste col suo omologo italiano, sono ambedue cristiani più o meno democratici, e alla fine la frittata è fatta.

Ed ecco la seconda: Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante della Gestapo a Roma, ergastolo per la strage delle Ardeatine, fugge dall’ospedale militare del Celio dove è ricoverato. È il 15 agosto 1977. Ed è fuggito, raccontano le cronache, punteggiate da imbarazzanti interrogativi, in una valigia portata a mano dalla moglie. Nessuno ci ha mai creduto.

Passiamo al maggiore Walter Reder, il «monco maledetto», come lo chiamavano. A lui si debbono migliaia di vittime, 980 a Marzabotto, oltre 500 a Fivizzano. Crudele e cinico: ordinava polli e vino in quest’ultima località mentre i suoi scherani ammazzavano la moglie e i figli dell’oste, insieme a tanti altri innocenti. È un totenkopf i cui componenti si erano fatti le ossa a Dachau e altri lager. Condannato all’ergastolo a Bologna, nel 1951. Ma arrivò la grazia anche per lui. Gli fu concessa dal governo Craxi nel 1985, malgrado le proteste degli abitanti delle zone da lui colpite. Tornato nella sua Austria, ebbe la spudoratezza di dire: «La grazia? L’ha chiesta il mio avvocato». Nel 2011 viene estradato dal Canada Michael Seifert, SS, ucraino. Di delitti gliene furono imputati 18 nei lager di Bolzano, più quelli commessi in un altro lager, Fossoli, dove le vittime furono 72. Si divertiva a torturare e finire i prigionieri con pezzi di vetro. Ma è anche carico di anni, dopo pochi mesi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, tirerà le cuoia.

Erich Priebke, uno degli assassini delle Fosse Ardeatine e componente del comando di via Tasso, dove si torturava sino alla morte, ha goduto, invece, degli arresti domiciliari, con frequenti uscite, tuttavia, per godersi la città di Roma che lui contribuì ad insanguinare. Fu catturato dagli alleati a fine guerra e confessò i suoi delitti con la stessa impersonalità di un notaio che registra un passaggio di proprietà.

[do action=”quote” autore=”Erich Priebke, 8 agosto 1946″]Io entrai con il secondo o terzo plotone e uccisi un uomo con un mitra italiano. Verso la fine uccisi un uomo con lo stesso mitra. Le esecuzioni terminarono la sera, quando stava calando l’oscurità.[/do]

 

Ecco le sue parole. La data è dell’8 agosto 1946. Il testo integrale dice così: «Sono stato avvisato di non essere obbligato a dire alcunché, a meno che io non voglia farlo, e che ogni cosa che dirò sarà messa per iscritto e tenuta in evidenza. Nel gennaio 1941 fui assegnato allo Stato maggiore del Tenente colonnello Kappler, in via Tasso, a Roma. Il mio lavoro consisteva nel far da collegamento tra i servizi di polizia tedeschi ed italiani. Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 mi trovavo nel mio ufficio di via Tasso quando appresi che un certo numero di soldati tedeschi era stato ucciso in un attentato dinamitardo, in via Rasella, a Roma. Ritengo che il Tenente colonnello Kappler e il capitano Schutz, avendo appreso dell’incidente, avevano lasciato gli uffici per recarsi sul posto. Io rimasi temporaneamente al Comando, in via Tasso. Quella sera il Tenente colonnello Kappler tornò presto in ufficio e chiamò tutti gli ufficiali e i soldati. Ci parlò dell’incidente dicendoci che ci sarebbe stata una rappresaglia contro gli italiani nel rapporto di un tedesco contro dieci italiani. Io ritengo che quest’ordine fosse stato dato dal Generale Kesserling (condannato a morte, poi all’ergastolo, poi a niente, ndr). Ci fu detto di effettuare una ricerca in tutti i registri dell’Ufficio al fine di rintracciare tutte le persone condannate a morte dai tribunali tedeschi per reati contro le truppe tedesche, al fine di ucciderle. Tutta la notte cercammo tra i registri, ma non riuscimmo a trovare un numero sufficiente a raggiungere un numero richiesto per l’esecuzione. Non essendo riusciti nell’intento, facemmo un’ulteriore ricerca nei registri per vedere se ci fossero persone non ancora processate, ma che erano state arrestate per essere o coinvolte in offese contro truppe tedesche, o trovate in possesso di armi da fuoco ed esplosivi, o alla testa di movimenti clandestini. I loro nomi vennero aggiunti all’elenco. Non riuscimmo, tuttavia, a trovare persone sufficienti, per cui, credo, che venne chiesto al Questore Caruso (condannato a morte e fucilato, ndr) di fornire persone sufficienti a costituire il numero di trecentoventi. Il giorno seguente, verso le ore 10,00, Kappler chiamò di nuovo tutti noi ufficiali, dicendoci che il Comandante del reggimento di Polizia, i cui soldati erano stati uccisi, si rifiutava di mettere in pratica l’esecuzione capitale, e che i soldati del Quartier generale in via Tasso dovevano essere gli esecutori. Ci disse che questa era cosa orribile da fare e che tutti gli ufficiali per mostrar ai soldati che avevano il sostegno degli ufficiali, avrebbero dovuto sparare un colpo all’inizio e un altro alla fine. Verso mezzogiorno del 24 marzo 1944, circa ottanta, novanta soldati dei Reparti III e IV andarono alle Cave Ardeatine. All’arrivo vidi i prigionieri nella cava. Tutti avevano le mani legate dietro la schiena, e quando i loro nomi venivano chiamati si incamminavano all’interno della cava in gruppi di cinque. Erano presenti dieci o dodici ufficiali, tra i quali Kappler, i capitani Schutz, Clemens, Wetjen e Koehler, i Maggiori Domizlaff e Hass, i Tenenti Tunath e Kahrau, e altri del reparto III. Io entrai con il secondo o terzo plotone e uccisi un uomo con un mitra italiano. Verso la fine uccisi un uomo con lo stesso mitra. Le esecuzioni terminarono la sera, quando stava calando l’oscurità. Nel corso della serata arrivarono alcuni genieri tedeschi e dopo l’esecuzione le cave furono fatte saltare. Non so se fu Kappler, Maeltzer o Kesserling a ordinare di far esplodere le cave. In quel periodo a Roma c’era uno stato d’emergenza, sebbene non fu pubblicata alcuna dichiarazione sull’effetto, poiché quasi ogni notte c’erano azioni contro le truppe tedesche».

Priebke si è fatto mezzo secolo di libertà, prima di essere estradato dall’Argentina. Non risulta che abbia mai avuto una parola di rimpianto. A questo brevissimo elenco, vanno aggiunti i 31 ergastolani rei delle stragi di Marzabotto, Stazzema, Fivizzano ecc.. Non sono fuggiaschi, non sono evasi, non sono latitanti. Sono tranquilli e liberi: la Germania li protegge, l’Italia fa finta di niente.

* autore del libro L’armadio della vergogna

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