Aboca è un editore che nasce per ri-proporre libri illustrati di botanica, patrimonio del pensiero e del desiderio delle menti di investigare le forme e le intenzioni della natura, quindi per divulgare saggi che esplorino il benessere in tutte le sue forme. La direzione affidata al poeta Antonio Riccardi ha arricchito un catalogo che ha, nella collana Il bosco degli scrittori, un’ulteriore possibilità: seminare e attendere il raccolto di autori fra i nostri più originali, che si confrontano con la dimensione narrativa dell’albero, ovvero con tutto quel misurarsi di cortecce, semi, foglie, silenzi secolari e scambi continui di fiotti d’esistenza fra natura umana e natura apparentemente inanimata.

L’ultimo germoglio di questo bosco letterario è il romanzo del visionario Antonio Moresco, Canto degli alberi, mantovano di nascita ma milanese d’azione, già protagonista di una copiosa produzione narrativa e saggistica, o meglio, opinionistica, che appassiona i lettori forti, lettori voraci e veraci. Del romanzo intimistico di Moresco scriverò in futuro, ora invece mi dedicherò a esplorare un altro titolo da poche settimana uscito per Aboca, più consono al tono e agli argomenti sfiorati in questa nostra rubrica: Vite di alberi straordinari. Viaggio tra le piante più antiche del mondo. Ne è autrice l’architetto Zora Del Buono, classe 1962, cresciuta come da biografia autorizzata fra Bari e Zurigo, ma dal 1987 berlinese.

L’esplorazione si innesta nell’attuale ondata di pubblicazioni dedicate agli alberi e agli alberi eccezionali, di cui chi scrive è un affezionato cucitore, al pari di professori universitari, ricercatori scientifici, viaggiatori, fagnani – ovvero coloro che coltivano il far-niente – di ogni sorta e ammiratori di Madre Natura. Si tratta di quattordici visite fra alcuni dei giganti arborei che abbiamo ereditato dalle generazioni passate, evidentemente non proprio del tutto indifferenti alla bellezza maestosa e sacra di questi esemplari straordinari, e nemmeno degli ambienti che li circondano. Pochi sono gli alberi a diretto contatto con gli umani, la maggior parte sono alberi cresciuti in ambienti remoti rispetto al quotidiano vivere delle persone, anche se in taluni casi poi divenuti mete di pellegrinaggi e curiosi, poiché come sappiamo i parchi naturali, nazionali o meno, sono stati istituiti fra la seconda metà del XIX secolo e la prima del successivo, in quanto desiderio di tutela di specie rare o in pericolo, ma oggi alternative a Disneyland.

Ne è emblema maximo lo stracitato Generale Sherman Tree, la più grande sequoia della California, nonché il più grande essere vivente, per mole, esistente al di sopra della superficie terrestre. Se invece consideriamo l’insieme dei viventi allora si possono considerare i funghi, certe cooperative funginee, come le maggiori creature del pianeta. Ma ci sono anche divulgatori che inseriscono in queste visioni nuove la barriera corallina, che quindi non avrebbe paragoni con altre conformazioni naturali abitate e viventi. Il Generale Sherman Tree è un albero alto “soltanto” 84 metri, con una base che ne misura 32. Respira in quella foresta che il viaggiatore e conservazionista John Muir ribattezzò Giant Forest, da un’età stimata fra i 2300 e i 2700 anni. Sempre in nord America Zora Del Buono è andata ad accarezzare due tassodi ultramillenari in Florida, Senator e Lady Liberty, la celebre quercia Angel Oak in South Carolina, spesso citata come albero millenario ma probabilmente più giovane, e di certo uno degli alberi patriarcali più riprodotti sui social e in internet, grazie ai suoi rami serpeggianti e poderosi, a quell’approssimarsi estetico all’idea di albero gotico, scuro, diabolicus, che la nostra fantasia solletica e alimenta. Come ricorda l’autrice, «per gli afroamericani questo leccio ha una grande importanza, considerato che contro di esso sono stati linciati gli schiavi ribelli, le cui anime tremule si dice abitino ancora l’albero». Anche in questo caso dunque le storie umane e le storie arboree si intrecciano a filo doppio, accompagnandoci a quella considerazione che è la spina dorsale dei viaggi di Arbor maxima: la storia è una soltanto, il respiro che unisce i viventi è uno solo, e oramai, vista la diffusione epidermica della nostra specie sul pianeta, anche gli alberi antichi hanno una storia che dipende da noi e noi dalla loro. E non mi riferisco, ovviamente, soltanto alla nostra dipendenza meccanica, al nostro respirare ossigeno.

Non manca un’escursione nel bosco di migliaia di pioppi tremuli ribattezzato Pando, nello Utah, presentato come si fa ai nostri spettacolari giorni come un unico organismo di ottantamila anni, un bosco di alberi unito dalla vasta rete sotterranea delle radici e dove tutte le piante sono repliche dello stesso patrimonio genetico. Un salto all’arboretum di Washington dove è custodito un pino parviflora in formato bonsai, dalla lunga storia, sopravvissuto al bombardamento atomico di Hiroshima e quindi regalato agli Stati Uniti dal governo nipponico, per i cinquant’anni della tragedia. Infine si arriva sulle terre che rappresentano uno dei luoghi che più amo al mondo, le Montagne Bianche interne della California, laddove crescono i pini longevi o pini dai coni setolosi, in quelle terre brulle fra i 3000 e i 3500 metri di altitudine; qui riposano gli alberi non clonati più annosi del pianeta, alberi che hanno saputo bucare i 4 mila e addirittura i 5 mila anni di età. Strutture cornute, come in certi dipinti del Graham Sutherland. Tronchi giallognoli, crescite lentissime, geometrie lignee degne del Bernini.

In Europa si visitano la celebre quercia cattedrale di Allouiville-Bellefosse, oramai quel che resta di un albero, con la sua storia di preti pazzi che vi hanno fatto costruire, all’interno del suo tronco, due distinte cappelle – non sono gli unici casi, si pensi a certi platani in Grecia, alle sequoie-negozio e museo in California, ad un baobab in Sudafrica, nonché ai nostri castagni “taverna” fra Piemonte ed Emilia Romagna – e oggi, mantenendo il punto, oramai trattasi di lamiere e strutture incatenate ai pochi legni rimasti, un albero che se avessimo davvero cuore e rispetto per la natura probabilmente lasceremmo decadere al silenzio eterno. E invece manteniamo, allettiamo il turismo dei moribondi e così via.

Fra i diversi tassi britannici si visita l’esemplare di Ankerwycke, nel Berkshire. Dikie Marie è una farnia nell’ombrosa foresta di Tegel. Il tiglio di Linn radica in Argovia, Svizzera, coi suoi 600-900 anni di età. Alcuni alberi si divertono ovviamente alle nostre spalle, come il tiglio tedesco di Schenklengsfeld, cresciuto con diversi tronchi, per una larghezza totale che sfiora i diciotto metri. In Engadina si visita il pino cembro millenario di Muottas, un esemplare che è tutto da ammirare. Old Tjikko è un abete modesto, nel parco nazionale di Fulufiallet, in Svezia: l’albero visibile ha fra i cento e i duecento anni, ma sotto c’è una radice che è viva da ben 9500 anni.

Non mancano gli italiani: sulle pendici dell’Etna si incontrano i tre legni millenari che compongono il celebre Castagno dei cento cavalli, per lungo tempo considerato il patriarca dei nostrani, con stime che oscillavano fra i duemila e i quattromila anni d’età, e attualmente scalzato dal sardo olivastro di Luras, coi suoi 3-4000 anni. Non è improbabile che le età di entrambi siano meno angeliche, tuttavia sono esemplari magistrali che ogni italiano dovrebbe andare a visitare, prima o poi.

Tre note conclusive. Purtroppo mancano incontri con alberi del Sud America, dell’Africa, dell’Australia e dell’Asia. Si percepisce l’assenza nel volume di una bibliografia ragionata e tematica. Infine, ogni capitolo è accompagnato dalle belle fotografie scattate dalla del Buono usando una precisa e romantica Rolleiflex biottica (copertina compresa).