Lunga la strada di Reichlin
Divano Aveva maturato la consapevolezza di quanto sia oggi necessario concepire un disegno di prospettiva capace di «indicare una strada nuova al paese», compito che gli appariva non prorogabile
Divano Aveva maturato la consapevolezza di quanto sia oggi necessario concepire un disegno di prospettiva capace di «indicare una strada nuova al paese», compito che gli appariva non prorogabile
Come restare vicino, in queste ore, ad Alfredo Reichlin? E come orientare le immagini e i pensieri che fanno ressa, che affiorano numerosi da spiragli di anni e di luoghi? Illuminazioni sparse. Si impongono presenti alla mente gesti usuali resi ora indelebili e non si precisano, altrettanto netti, i contorni di un giudizio o i fondamenti di una affermazione, di una presa di posizione che discutemmo, che ci impegnò. E invece chiaro, intatto ci resta il tono che fu conferito a una parola, la pronunzia di un nome o l’intensità d’uno sguardo volto non rammenti più a chi. Si compone così quanto risulta fisso nella memoria e va a costituire dentro di noi il retaggio che acquisiamo una volta per sempre. Altri giorni, altre persone e le loro voci che oggi ci mancano, noi che non cessiamo di porci domande, di cercar di capire e intrattenere con quelle voci un colloquio, tanto fitto da farle nostre. Noi che continuiamo la conversazione, che diamo svolgimento a riflessioni e ipotesi a costituire, come ha scritto Alfredo, «la consapevolezza della propria vita». È così che Reichlin ha inteso «assumere il compito che la vicenda storica reale pone davanti a noi». È questo convincimento che anima la sua passione per la politica. Pensieri, domande che si condensano in letture e si confrontano con le parole per dar conto, per ordinare, per aderire ai fatti: «pensare la politica come storia in atto», diceva. Interpretare per cambiare. Attitudine, modo di ragionare e di sentire che attrae Alfredo ai tempi del Regio Liceo Ginnasio Torquato Tasso, con il suo compagno di banco Luigi Pintor, fratello di Giaime. «Noi avevamo diciotto anni, Giaime ne aveva quattro o cinque di più. E Giaime resta per me il simbolo di una generazione. Era tra i redattori della Casa Einaudi. Traduceva Rilke. Mi regalò un libretto di un certo Lénine, intitolato Le ‘gauchisme’, maladie enfantine du communisme. A Cesare Pavese Giaime faceva leggere le mie poesie».
So che quel giovane uomo di diciotto anni Alfredo è restato fino ad oggi. E ancora, oggi, in queste ore, con il lutto nel cuore, come stargli vicino e parlarci?
Sfoglio quelle traduzioni di Rilke. Ho in mano il libro stampato settanta anni fa da Giulio Einaudi. La copertina è grigia. La legatura ha ceduto, ma i sedicesimi si sono mantenuti compatti. E graffi sottili, ma perentori, stilati su un grigio più tenue, sono le incisioni fuori testo, a piena pagina, di Roberto Bertagnin. «Ich bin jetzt matt, mein Weg war weit, / vergib mir»: «sono stanco ora, la strada è lunga, perdonami». Dieci giorni orsono ho ricevuto da Alfredo il testo dell’articolo apparso su l’Unità «Un lungo silenzio», che comincia: «Sono afflitto da mesi da una malattia che mi rende faticoso perfino scrivere queste righe». Sono righe che dicono la consapevolezza maturata da Reichlin di quanto sia oggi necessario concepire un disegno di prospettiva capace di «indicare una strada nuova al paese», compito che appare a Reichlin non prorogabile. «Sono arrivato alla conclusione, scrive, che è il momento di ripensare gli equilibri fondamentali del paese, la sua architettura dopo l’unità, quando l’Italia non era una nazione». Richiama ad altri momenti cruciali della vicenda italiana che furono in grado di assumere un punto di vista ‘storico’. La Destra, la Resistenza. «Ripartire da lontano, altrimenti non si capisce cosa è successo», diceva.
Reichlin non vede attualmente il soggetto politico adeguato al compito. «La sinistra rischia di restare sotto le macerie» della crisi sociale e della crisi della democrazia. La compagine maggiore, che vorrebbe presentarsi come un partito della ‘nazione’, «è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere». Così oggi, in Italia, ricostruire un’idea di paese vuol dire costruire, né più né meno, una soggettività politica «in grado di accogliere, di organizzare la partecipazione popolare e insieme di dialogare, di comporre alleanze, di lottare per obbiettivi concreti e ideali rafforzando il patto costituzionale, quello cioè di una Repubblica fondata sul lavoro». Giorni fa chiedevo ad Alfredo di incontrarci, ragionare sul che fare.
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