Il minimo che si possa dire del magnifico Lumina di Samuele Sestieri è che è un film molto personale. In ogni senso. Distribuzione autarchica dopo la presentazione allo scorso Festival di Rotterdam, a opera del suo stesso autore (il 18 al cinema Massimo di Torino, il 22 al Madison di Roma, il 27 al Lux di Messina, il 28 al King di Catania, il 29 al Rouge et Noir di Palermo, dopo essere già passato, dopo la presentazione al Sacher di Moretti, per Spoleto, Perugia, Bologna, Pisa, Arezzo…).
Produzione inventata, dopo aver coraggiosamente rinunciato al sostegno di una società piuttosto importante, per garantire un alto tasso di libertà realizzativa. Una banda di amici registi a ricoprire ruoli diversi: Fabio Bobbio al montaggio, Andrea Sorini alla fotografia, Olmo Amato agli interventi coloristici.
Un film unico nel panorama italiano, che mette in scena la genesi di uno sguardo, la sua possibilità evolutiva, incarnata da Carlotta Velda Mei (che in più punti ricorda la Laura Dern di Inland Empire di Lynch), protagonista aliena del film, che come una sirena viene dal mare, o meglio dalla linea di confine tra la terra e il mare, incagliata (liberata, si direbbe) tra le reti dei pescatori di cui si farà vestito e con cui inizierà il suo cammino alla scoperta della vita abbandonata da una civiltà assente. Penetra fantasmaticamente tra le rovine di un mondo pieno di resti, dove ogni traccia parla una lingua a lei sconosciuta ma di cui si appropria, famelica, in cerca di una identità, di una visione, forse di un sogno dal quale non si esce svegliandosi (come il cinema).

DA UNO SMART phone ritrovato nel villaggio abbandonato dove trova riparo riemergono i filmati della vita di una coppia (Leo e Arianna) che parlano la lingua dell’amore e di cui la giovane naufraga sirena fantasma apprende una sua educazione sentimentale, la dolcezza e il dolore. Le immagini del passato della coppia diventano il presente, agiscono come forza deviante, come provocazione, come rilancio, intarsiando il film (che per il resto ha una fotografia sofisticatissima) con la loro brutale assenza di forma (fino al crash finale in cui tutto si fa forma e tutto è deforme). Sarà il sonoro di queste immagini a determinare il fuoricampo temporale (il passato a venire, i ricordi del futuro), a stabilire un racconto, a guidare i passi della donna sola, accompagnata dai suoi fantasmi, da un corpo che pian piano trova un suo equilibrio, una sua ragion d’essere (silente, o meglio, latente).

Lumina è un film sulla nostalgia della luce, di ciò che la vita illumina al suo passaggio, un film-passaggio che riesce a essere terra (gli splendidi paesaggi lucani in cui Sestrieri ha girato), acqua, aria, fuoco. La stessa Carlotta Velda Mei si fa elemento naturale (e ci fa dimenticare di essere attrice, cosa per cui le va riconosciuto un enorme merito nella riuscita e nella ricchezza di un film fatto di pochissimi elementi, che sembra volare sulle ali di una farfalla e brillare di una luce intensa pur nella sua grande, trionfante, fragilità).