Visioni

«Lumina», la memoria del mondo negli oggetti

«Lumina», la memoria del mondo negli oggettiUna scena da Lumina

Intervista Samuele Sestieri parla del suo nuovo film, una storia tra reale e fantastico, unico titolo italiano al festival di Rotterdam che si apre, in presenza e online, oggi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 2 giugno 2021

Della parola Lumina gli piaceva il suono e che vi riecheggiasse dentro il film: «Contiene in sé l’idea della luce, e il percorso della protagonista che porta la luce in un mondo in rovine» racconta al telefono Samuele Sestieri parlando del suo nuovo film, Lumina, unico titolo italiano al festival di Rotterdam, nella sezione Bright Future, che apre oggi la sessione estiva (la prima è stata lo scorso febbraio, 1-7) dell’edizione 2021 – fino al 6 giugno, in presenza per il pubblico olandese e online per quello internazionale. Neppure gli autori ci spiega Sestieri vi partecipano – anche se il festival è molto attento e ha moltiplicato le occasioni di incontro tra i cineasti e col pubblico a distanza mantenendo l’attitudine che lo caratterizza sin dalle origini, e che lo ha reso tra i grossi appuntamenti festivalieri (e di mercato) internazionali uno dei più rilassati. L’Olanda però osserva ancora restrizioni di viaggio piuttosto severe – dieci giorni di quarantena – e questo rende complicata la partecipazione «dal vivo».
Per Sestieri è comunque gioia grande: un’occasione di lancio speciale che soprattutto rompe l’ansia da pandemia («Temevo di non riuscire a mostrarlo mai questo film») e che ha subito aperto nuove porte per il futuro con le richieste da numerosi altri festival – il prossimo è la Mostra del Nuovo cinema di Pesaro dove sarà presentato come Evento speciale.

ROMANO, trentadue anni, critico («Point Blank», «Schermo Bianco»), cinefilo prima che regista – un po’ come nella tradizione dei «Cahiers du cinéma» – Sestieri è un autore indipendente e assai eccentrico rispetto ai motivi comuni del cinema italiano, anche quello giovanissimo, più vicino invece alle sue declinazioni di ricerca, non riconducibili a un solo «modello» – quelle però che da qualche anno lo rendono nuovamente al centro dell’attenzione internazionale.
L’esordio nel lungometraggio – ma ci sono nella sua filmografia diversi corti tra cui Danza al tramonto (2012) e Matrioska (2018) – I racconti dell’orso codiretto insieme a Olmo Amato, era stato una bella sorpresa rivelando un talento visivo autoriale capace di disseminare i toni fiabeschi e le visioni fantastiche sui bordi di un quotidiano molto «reale».
È un po’ la dimensione che ritroviamo in Lumina, ancora un’autoproduzione insieme a Pietro Stori , con attori molto bravi – Carlotta Velda Mei, nel ruolo della protagonista, Matteo Cecchi, Laura Sinceri e Vasile Morosen – una ricerca formale nel contrasto pittorico di luci, natura, paesaggi dove si muove la «Giovane Donna Misteriosa» – così viene indicata – che abbiamo incontrato nella prima sequenza mentre si risveglia nuda su una spiaggia deserta. E deserti sono i luoghi che pian piano scopre: nessuna presenza umana (forse) ma molte tracce di un suo passato. Suspense, mistero, fantasy, emozioni tangibili di una esistenza alla ricerca di sé: più che alla fantascienza il «genere» inventato da Sestieri è quello di una geografia sentimentale, della conoscenza, della solitudine e dell’indagine intima di un cuore che sa accompagnare grazie alla cura per le immagini, e all’invenzione costante di uno sguardo che questa opera seconda conferma e mostra anzi in modo più compiuto. È quella la sua materia, il suo «territorio» del cinema nel quale incontra la complicità preziosa di Andrea Sorini alla fotografia, anche lui regista di un bell’esordio, Bajkonur, e di Fabio Bobbio (ugualmente regista di I Cormorani) al montaggio proponendo così anche uno scambio e collaborazione molto interessanti.
«Mi piace muovermi in una dimensione che oscilla tra reale e fantastico – spiega Sestieri – L’ispirazione del film arriva da un paesaggio di rovine reale che ho scoperto durante un viaggio in Basilicata nel 2019 con Pietro Stori, il coproduttore di Lumina. Mi ha portato nei piccoli borghi oggi abbandonati, dove nelle case ormai cadenti capita di trovare ancora una scrivania con sopra un’agenda aperta e piena di polvere. Con lo sceneggiatore abbiamo cercato di immaginare cosa avrebbe provocato in luoghi come questi la presenza di una donna che ha il ’potere’ di retroilluminarli».

«Lumina» inizia con l’immagine di una ragazza nuda, quasi come fosse appena nata, su una spiaggia. Non sappiamo nulla di lei e neppure del mondo in cui si risveglia privo di presenza umana ma non terrorizzante. Possiamo pensare a infinite storie, catastrofi, apocalissi, l’umanità è scomparsa non rimangono che i suoi ricordi negli oggetti.
Sono molto attratto dalle rovine, e credo che un oggetto conserva in sé i segni di chi lo ha posseduto, e dunque può dirci qualcosa del suo vissuto, delle sue esperienze. Gli oggetti riattivano una memoria, che è quanto manca alla protagonista, una ragazza priva di identità, di cui non conosciamo la dimensione interiore, il passato:in qualche modo gli oggetti che lei «incontra» come i paesaggi che attraversa possono suggerire qualcosa su di lei.

Per «Lumina» rispetto a «I racconti dell’orso» siete partiti da una sceneggiatura, come ti sei posto rispetto alla scrittura nelle tue scelte di regia? Le ha influenzate?
I racconti dell’orso, non aveva uno script, in realtà c’eravamo solo io e Olmo Amato. Stavolta abbiamo lavorato all’interno di un sistema cinematografico più «convenzionale», ma la scommessa è stata sempre quella di mantenere una certa fluidità nonostante dei ruoli più definiti. Insieme a Pietro Masciullo abbiamo costruito una sceneggiatura «aperta», nel senso che si affidava già in origine ai luoghi, ai dialoghi, alle situazioni che potevano accadere durante le riprese. Detto questo siamo stati molto fedeli alla sceneggiatura, e al tempo stesso ci sono scene nate al momento sul set, come le riprese che lei guarda sul cellulare: ai due attori davo delle indicazioni poi li lasciavo filmarsi, a un certo punto magari chiamavo uno dei due e gli chiedevo di fingersi arrabbiato. Molto è stato riscritto al montaggio, ma è stato divertente, perché ad esempio loro due dovevano anche imparare a essere una coppia durante la lavorazione del film.

La dimensione apocalittica è un riferimento ricorrente dell’immaginario, poteva essere un rischio.
Diciamo che rientra nel discorso sul genere che è quello che mi interessa, e che in questo caso si sposta più verso la cifra del fantastico. In scrittura è stata un elemento molto presente pure se abbiamo continuamente cercato di scioglierlo dentro a una visione interiore. Quello che davvero mi interessava era la narrazione del personaggio della Giovane Donna Misteriosa, e sia le rovine che i luoghi assumevano senso nella relazione con lei. Cosa è successo prima, se quella realtà è stata investita da un evento straordinario è molto meno importante del confronto tra la ragazza e il mondo in cui si trova, del sentimento che le suscita. Di quel suo passaggio dall’essere spettatrice a divenire protagonista.

Quasi un gioco col cinema.
Lei è una spettatrice dei sentimenti, dei linguaggi, del corpo, del sesso, apprende emozioni e gesti da un cellulare per poi calarsi nel mondo e divenire, appunto, protagonista. Ma come visto che è da sola? In che modo cioè passare dall’esistenza digitale a una più analogica? Da cinefilo mi piace riflettere sul rapporto che si crea tra lei e lo schermo.

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