L’umanità al bar di Pointe-Noire
Narrativa Torna in libreria, per l'editrice 66thand2nd, «Pezzi di vetro» dello scrittore congolese Alain Mabanckou. Un affresco tragicomico di esistenze al limite, «disegnate» dagli appunti di un ex professore appassionato di belle lettere
Narrativa Torna in libreria, per l'editrice 66thand2nd, «Pezzi di vetro» dello scrittore congolese Alain Mabanckou. Un affresco tragicomico di esistenze al limite, «disegnate» dagli appunti di un ex professore appassionato di belle lettere
Dopo averne puntualmente pubblicato i romanzi più recenti (Black Bazar 2010, Domani avrò vent’anni 2011, Zitto e muori 2013 e Le luci di Pointe Noire 2014), la casa editrice romana 66thand2nd onora anche quest’anno il suo ormai atteso appuntamento con lo scrittore congolese Alain Mabanckou ripescando tra le sue opere precedenti Pezzi di vetro (titolo originale Verre cassé, Editions du Seuil, 2005), che ha tributato all’autore fama mondiale e unanime apprezzamento di pubblico e critica.
Tradotto in numerose lingue (e già apparso anche in Italia per la prima volta da Morellini nel 2008), il testo ha avuto diversi adattamenti teatrali e ha vinto prestigiosi premi, ed è stato incluso dal Guardian tra i dieci romanzi africani contemporanei più influenti. Sin dalle prime pagine, però, questa riproposizione fuga ogni dubbio sulla sua opportunità e necessità, non solo riconfermando che le grandi storie rivivono ogni volta che le si ri-racconta o riscrive, ma anche e soprattutto liberandoci dalla ricerca di etichette critiche che già altrove sono state affibbiate a Mabanckou e ai suoi romanzi – da afropolitan in giù – e permettendoci di concentrarci appieno sull’essenza di un autore dotato di grandi capacità affabulatorie, estremamente divertente e irriverente, celebrativo e dissacratorio al tempo stesso.
Teatro della vicenda, o meglio delle tante vicende che compongono il romanzo è un bar di Pointe-Noire situato in uno dei quartieri periferici della città, regno della prostituzione, popolato da professioniste del sesso e relativi clienti, per lo più scansafatiche e ubriaconi, assidui frequentatori o avventori occasionali dello stesso locale, tutti accomunati dal grande amore per la bottiglia, le donne e l’arte del narrare, ciascuno convinto di avere una storia a suo modo unica e irripetibile, e perciò degna di imperitura memoria. Si va dall’emigrato a Parigi devastato dal matrimonio con una francese bianca e poi rimpatriato con la convinzione che se avesse sposato una connazionale avrebbe potuto risolvere tutto a colpi di machete, al reduce da un carcere di massima sicurezza vittima di una falsa accusa di pedofilia, fino al guaritore che si crede meglio perfino di Gesù Cristo.
Le storie di queste tante «meteore, comparse e ombre di passaggio» vengono raccolte e salvate dall’oblio da un ex professore amante delle belle lettere, che deve proprio al loro stesso vizio la discesa senza ritorno verso questa umanità reietta, a cui, incalzato dal proprietario del locale, fa spazio tra una bottiglia di vino rosso e un cartoccio di pollo-bicicletta, iniziando ad annotare su un quaderno tutto quello che vede e sente, perché «la gente di questo paese non è abituata alla conservazione della memoria… scripta manent, mentre le parole sono fumata nera, piscio di gatto selvatico», divertendosi a confondere sulla pagina il confine tra vita e letteratura, realtà e finzione, arte, gloria, successo e celebrità.
In un’alcolemica tirata senza pause, la penna di Pezzi di vetro passa così in rassegna i vizi e le debolezze di questi «dannati della terra» e ne ha per tutto e tutti: si denunciano capitalismo, colonialismo e schiavitù, razzismo e rapporti di potere tra razze, classi e sessi, non senza luoghi comuni e pregiudizi; non si risparmiano le istituzioni e la politica, la religione e i suoi santoni, la morale e i finti o ingenui perbenismi; si filosofeggia di amore, sesso e tradimento, precipitando spesso nel baratro di ridicole liti coniugali e accese vendette che portano alla pazzia, e che solo l’alcol è infine capace di redimere o almeno temporaneamente pacificare.
Da Pointe Noire a Parigi, dal Congo alla Francia, dall’Africa all’Europa, le annotazioni del taccuino riflettono l’esperienza personale di Mabanckou stesso (nato nella Repubblica del Congo, trasferitosi in Francia per completare gli studi e oggi insegnante di letteratura francofona in California) e richiamano molte delle figure-tipo ormai ben riconoscibili al lettore presenti negli altri romanzi, tracciando una tragi-comica quanto epica carrellata sulle mille sfaccettature dell’africano contemporaneo, migrante e non, in una girandola di storie e vite così folli e disperate da risultare esilaranti, così banali e quotidiane da diventare mitiche e universali.
Percorso da un’esuberante intertestualità e infarcito di sofisticati rimandi letterari che sembrano voler abbracciare la storia dell’umanità intera, con fulminei accenni disseminati qua e là al cinema, alla pittura e alla Grande Storia, Pezzi di vetro compie con nonchalance rapide e vertiginose ascese e ridiscese tra i registri più disparati, sublimando dai racconti dei suoi ubriaconi disperati a Rabelais e Bertold Brecht, da Ousmane Sémbene a Salinger, passando per Marquez, Shakespeare, Cechov e Dostoevskij, e persino Hitchcock e Van Gogh, Giulio Cesare, Ponzio Pilato e Napoleone vengono travolti in questo citazionismo esasperato che diventa antropofagismo linguistico e culturale.
Da emigrato colto e vorace di sapere ma tutt’altro che sradicato – termine caro alla critica nei confronti degli scrittori migranti – Mabanckou mastica con gusto le tradizioni africana e occidentale che l’hanno formato e le risputa ibride e meticce, in macchie di colore vivide e pennellate così sintetiche da riuscire a contenere il tutto in meno di duecento pagine.
Inconfondibile anche lo stile, che aborre il pensiero minimo ed esalta la sequenza paratattica, fatto di periodi interminabili infarciti di aggettivi, metafore e similitudini – molte delle quali riprese dal mondo animale, protagonista nella tradizione africana quanto in La Fontaine – suscitando in noi un misto di invidia e ammirazione per Daniele Petruccioli, che si è imbarcato nell’avventura spericolata della traduzione, uscendone vittorioso.
Questa sintassi evoluta e creativa, derivata dal linguaggio orale – ma qui spesso annaffiata dal vino di palma di cui tutti i protagonisti fanno ampio uso fino ai limiti del visionario – tiene il lettore incollato alla pagina e lo conduce tutto d’un fiato dall’inizio alla fine, alla ricerca di un punto che non troverà nemmeno in conclusione del libro, e che ci lascia con l’ardente desiderio di non dover attendere un altro intero anno prima della prossima uscita.
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