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L’ultimo pensiero di Umberto Boccioni

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 15 giorni faEdizione del 20 settembre 2024

Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria Ungheria. Nei tre giorni successivi l’esercito italiano occupa monte Altissimo, Ala e Cortina d’Ampezzo. Il 12 giugno le truppe italiane sono a Plezzo; il 12 gli alpini si attestano sul Monte Nero. Il 23 si scatena la prima battaglia della lunga offensiva sull’Isonzo. Tra i primi ad arruolarsi volontario inquadrato in un battaglione ciclisti, Umberto Boccioni. Il 19 ottobre è in prima linea. Scrive in un suo Diario di guerra: «Comincia secondo quanto è stabilito il bombardamento dall’Altissimo sulle posizioni austriache». E «Arriviamo sentendo una specie di urlo ci gettiamo a terra: uno shrapnel scoppia e a venti passi io grido: Finalmente! Volontari strisciano calmi. Ordine di ritirarsi. Nessun ferito. Oggi ho visto! E udito! Compio 33 anni 19 ottobre 1882-19 ottobre 1915. Rinfrescato il battesimo. Buon augurio?». No. Sarà questo il suo ultimo compleanno.

Da dicembre in congedo provvisorio a Milano, sarà richiamato nel luglio del 1916 e assegnato al 29° Reggimento Artiglieria da Campagna distaccato a Sorte, presso Verona. Scrive il 29 luglio da Sorte all’amico Vico Baer: «Qui la vita è terribile e l’istruzione rapida. Oggi istruzione al pezzo domani arrivano i cavalli». E aggiunge: «Non puoi immaginare cosa voglia dire rifare il soldato a 34 anni e nelle mie condizioni e con quello che la vita mi stava per dare. Coraggio, ma è terribile. Dei momenti mi sento soffocare». Racconta all’amico Baer che dal comando, «per deferenza», gli offrono un incarico nelle furerie. Boccioni rifiuta: «Ho cortesemente rifiutato dichiarando di voler fare il mio dovere in batteria. Anzi ho detto che per il prossimo sorteggio per bombardieri (qui tutti hanno il terrore di questo sorteggio…), tengano nota di me. Mi dissero con gentile premura di… non forzare il mio destino».

Non è saggio ‘forzare’ il destino, ammoniscono i ‘deferenti’ superiori. Ma Boccioni risponde loro, semplicemente, ch’egli intende seguire la sua via. Che non accetta d’esserne distolto, traviato dal privilegio. La sua è la medesima via che si apre davanti ai semplici soldati come lui, come lui comandati sulla linea del fuoco. Diresti si attenga all’antico ammonimento di Virgilio nel decimo dell’Eneide: «I fati troveranno la via (fata viam invenient)».

Egli sta pertanto al suo destino, non lo sfida, non lo pressa. La sua appare piuttosto una linea di condotta che annulla ogni retorica eroica che, invariabilmente, poggia su l’esempio individuale, sul valore del gesto personale. Come Renato Serra, Boccioni, semplice soldato tra soldati semplici, pare a me che mostri, nella implicita scelta dell’anonimato antiretorico (uno tra i molti in guerra) una sua avvenuta presa di coscienza, una sua maturazione o almeno (per stare ad una locuzione cara a Boccioni) uno «stato d’animo» mutato rispetto alle manifestazioni dell’anno precedente quando Boccioni e gli altri futuristi – come scrive Marinetti – aspettavano la «gioia di battersi alla frontiera orientale».

Così mi chiedo se in quel luglio del 1916 (la guerra infierisce dal quattordici) Boccioni ancora consenta (o quanto meno accolga con la medesima partecipazione) alla roboante dichiarazione di Marinetti: «Noi consideriamo come superata ed ancora superabile l’ipotesi della fusione amichevole dei popoli e non ammettiamo pel mondo, che un’unica igiene: la guerra». Per certo, dalla ‘fatale’ via lungo la quale è incamminato, Boccioni può ricavare molte ‘lezioni di vita’. Può farsi una opinione ben fondata su istituzioni, gerarchie, miserie che la guerra, senza orpello, investe d’una luce radente e spietata. Si consideri che tra le carte di Boccioni si conserva un ultimo foglietto vergato poco prima del 17 agosto del 1916, quando la morte lo coglie. C’è un disprezzo per la guerra. Scrive poche parole che suonano come il suo lascito spirituale: «… da quest’esistenza io uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. … Tutto ciò che vedo al presente è un gioco di fronte a una buona pennellata, a un verso armonioso, a un giusto accordo. Tutto, in confronto a ciò, è una questione di meccanica. … C’è solo l’arte».

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