Da una casi di morti, l’ultima opera di Leoš Janáček, il cui libretto, scritto dallo stesso compositore, trae l’argomento dal romanzo Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, ha in comune con il Fidelio di Beethoven l’orrore per l’istituzione del carcere e la profonda pietà per le sofferenze dei carcerati. Deve essere stato questo il motivo che ha spinto il regista Krysztof Warlikowski ad ambientare l’azione, invece che in un campo di lavori forzati della Siberia, all’epoca degli zar, in un carcere americano di oggi. Si acquista così, come vuole Warlikowski, un senso universale del carcere in quanto luogo di punizione e di reclusione, ma si perde la denuncia politica del regime che lo istituisce. A rafforzare quest’idea si cita, all’inizio, Foucault, un video proietta l’intervista a un prigioniero nero, e all’inizio un giovane nero tira una palla sul cestino del basket. Interventi che non c’entrano con la storia rappresentata da Janáček, come non c’entrano tante altre situazioni estranee alla vicenda. L’opera è divisa in tre atti che insieme non superano la durata di un’ora e mezzo. Dilatarne l’azione significa far perdere il senso di estrema concentrazione e densità del messaggio libertario.

COSI’ come non è colto il significato simbolico dell’aquila catturata all’inizio e liberata alla fine: Warlikowski semplicemente ha eliminato l’aquila. Una regia moderna può, e forse deve, anche stravolgere l’assunto di partenza, ma solo se lo stravolgimento si fa interpretazione, indagine di significati non evidenti, scoperta di lati inesplorati del testo. La regia di Warlinowski è un esercizio gratuito di farcitura arbitraria del testo. Per fortuna le cose vanno invece assai bene per quanto riguarda la realizzazione musicale. Dmitry Matvienko coglie perfettamente la densità espressiva della musica di Janáček, la sua straordinaria efficacia teatrale ottenuta proprio attraverso una scarnificazione della scrittura sia strumentale sia vocale. Il ritmo del parlato si estende agli strumenti e tutta la musica sembra nascere dall’intonazione stessa delle battute. L’ossessiva ripetizione di piccole cellule melodiche ingigantisce l’effetto delle parole, lo trasferisce anche agli strumenti. Si desidererebbe, forse, qualche sottigliezza, qualche sfumatura più delicata nella dinamica dell’orchestra, ma nell’insieme il contrappunto delle voci e degli strumenti è perfetto. E gli interpreti sulla scena sono tutti all’altezza del ruolo.

A COMINCIARE dal contenuto Gorjančikov di Mark S. Doss, al patetico, intenso Aljeia di Pascal Charbonneau. Andrebbero citati tutti. Il Filka di Štefan Margita, Il Šiškov di Leigh Melrose, lo Skuratov di Julian Hubbard. Il Direttore del carcere Clive Bailey. È un’opera corale, e dunque anche i figuranti hanno un ruolo importante. Bravi tutti a reggere il complesso intreccio di azioni. È l’aspetto più attraente della regia, una macchina teatrale che funziona benissimo. Così come le scene e i costumi di Małgorzata Szczęšniak e le luci di Felice Ross. Il pubblico, alla fine, applaude tutti calorosamente.
Dino Villatico