«Lo Stato non riconosce altra valuta che il Potere; e batte quella moneta da sé», scriveva Ursula K. Le Guin, nell’indimenticabile romanzo di fantascienza I reietti dell’altro pianeta (1976).

Alle volte, però, i Poteri s’immischiano tra di loro, s’ingarbugliano, si fanno lo sgambetto. Nei casi più fortunati, chi sfugge così alla vendetta istituzionale e al carcere riesce a mettere in mostra tutta l’iniquità della repressione giudiziaria, a gettare luce sulla ricerca di vendetta che la anima.

COSÌ È STATO per Vincenzo Vecchi, per anni «reietto» in Francia, dove resterà – per fortuna – libero, lontano dalle grinfie della giustizia italiana in cerca di vendetta per il G8 di Genova.

Lo ha stabilito ieri la Corte d’appello di Lione che, per la terza volta in quattro anni, ha rigettato la richiesta di estradizione verso l’Italia. Almeno per ora, Vincenzo, la sua famiglia e i suoi amici possono riprendere la loro vita in Bretagna.

Vincenzo Vecchi

Vincenzo fa parte di quei dieci manifestanti condannati a più di cento anni di carcere complessivi per aver partecipato alle manifestazioni contro il G8 di Genova. Quel G8. Quello dello sparo in faccia a Carlo Giuliani, la «macelleria messicana», le cariche su via Tolemaide, della Diaz, delle torture nel lager di Bolzaneto.

LA CORTE d’Appello di Genova gli aveva comminato 13 anni e spiccioli per «devastazione e saccheggio». Un’aberrazione giuridica, un reato creato dal Codice Rocco all’apice del fascismo, pensato per seppellire sotto anni di galera chiunque osasse contestare l’ordine costituito.

Un reato poi riesumato per colpire i movimenti, utilizzato contro i dieci di Genova così come contro i No Tav o gli studenti dell’Onda. Come ha scritto su L’Obs Éric Veuillard, intellettuale francese, a luglio scorso, a proposito di Vincenzo e del reato di devastazione e saccheggio: «Un manifestante può non aver commesso alcun crimine ed essere tuttavia colpevole. Basta che sia stato fisicamente presente», in prossimità di un crimine commesso a una manifestazione.

Piuttosto che varcare la soglia del carcere, Vincenzo se n’era andato in Bretagna, dove era stato accolto senza troppe domande, come racconta al manifesto Jean-Luc Budex, membro del Comité pour Vincenzo.

Si era adoperato nell’associazionismo locale, lavorando come carpentiere. Nel 2019 era stato arrestato all’improvviso dalla polizia francese, «e allora abbiamo scoperto che c’era un mandato d’arresto internazionale», dice Jean-Luc. «Vincenzo era stato condannato a una pena che nessun giudice francese avrebbe mai pronunciato. Qui non esiste quel reato d’origine mussoliniana».

IN FRETTA E FURIA, gli amici e – ormai – i familiari si erano attivati, chiamando avvocati, allertando compagni e intellettuali. Montarono una campagna, per evitare che dalla Bretagna Vincenzo non fosse impacchettato verso l’Italia, riuscendoci contro ogni pronostico. La prima tappa di un «accanimento giudiziario», come lo definisce Jean-Luc, che dura fino a oggi.

Come definire altrimenti tanto affanno per perseguire dei fatti che risalgono a più di vent’anni fa? Come spiegare questo «tour de France delle corti» (espressione di Jean-Luc), che ha fatto lavorare più di 50 magistrati, ha richiesto quasi 60 mila euro di spese per la difesa e 11 udienze?

«L’ARRESTO DI VINCENZO è stato effettuato quando al ministero degli Interni c’era Salvini – dice Jean-Luc e, alla fine, se ci pensi, Vincenzo – è stato condannato da una legge fascista in un paese attualmente governato da dei post-fascisti». Come dargli torto. «Parliamoci chiaro, un tale accanimento non lo si vede mai!», dice uno degli avvocati di Vincenzo, Maxime Tessier.

Poi ridacchia, perché la decisione della Corte d’appello di Lione è un gran sollievo per tutti quanti. La Corte, spiega l’avvocato, ha ritenuto l’estradizione «una violazione eccessiva della vita privata e familiare, in relazione ai reati di lieve entità che gli sono contestati. Inoltre, ha considerato la condanna comminata dalle autorità italiane non proporzionata ai fatti» e ai vent’anni passati da allora.

Una decisione «basata su dei buoni argomenti», secondo Chloé Fauchon, specialista in diritto penale dell’Unione europea. «Il mandato d’arresto europeo è quasi automatico, quindi le circostanze particolari dell’imputato non sono prese in conto», dice.

Per lei è positivo che il giudice abbia preso in considerazione la biografia personale di Vincenzo, «perché ogni decisione deve rispettare i diritti fondamentali» e quello della vita privata, così come della proporzionalità della pena, ne fanno parte. «Anche se è molto probabile che il procuratore farà appello».

VINCENZO NON PARLA coi giornalisti. Si esprime controvoglia, nelle aule della giustizia francese. Alla Corte d’appello di Lione, ha detto: «Quando ci fu il mio processo, mi assunsi la responsabilità di tutto quello di cui mi si accusava. Cioè, non ho preso i fatti uno per uno, dicendo “si, là sono io, là non sono io…”. Ero a quella manifestazione e mi sono assunto la responsabilità fino in fondo di esserci stato, ed è per quello che sono qua oggi».

Una dichiarazione che riporta alla mente una frase scritta dal Duka nel suo libro Roma KO (Agenzia X, 2009), in quelle pagine in cui rivendica di aver «fatto tutto», cantato coi cristiani, sfondato le vetrine col black bloc, portato gli scudi in via Tolemaide.

«Poi non me ne frega niente di quello che ho fatto realmente – scriveva, – tanto di fronte a un giudice, non ho fatto né l’uno né l’altro. Ma moralmente, tutti, abbiamo fatto ogni cosa, e ognuno di noi ha subito la guerra».

IN ATTESA del probabile appello della procura francese, Vincenzo resterà libero in Bretagna. Poi, forse, ci sarà un quarto round in questo accanimento giudiziario. «Noi siamo qua fino a che non mollano e non si stancano di questa storia», dice Jean-Luc del Comité de soutien, con l’obiettivo di durare un minuto più di loro e, di tribunale in tribunale, rendere vuota la loro vendetta.