L’ultima primavera nello sguardo di Farah
Intervista Leyla Bouzid, regista tunisina, in «Appena apro gli occhi» racconta la rivoluzione tunisina del 2011 attraverso le esperienze di una cantante diciottenne. «Nessuno ha mai trattato quegli eventi nei mesi che li hanno preceduti. Ho scelto una protagonista adolescente perché è il periodo della vita in cui si è convinti che il mondo ci appartenga. Volevo poi parlare della generazione nata sotto Ben Alì»
Intervista Leyla Bouzid, regista tunisina, in «Appena apro gli occhi» racconta la rivoluzione tunisina del 2011 attraverso le esperienze di una cantante diciottenne. «Nessuno ha mai trattato quegli eventi nei mesi che li hanno preceduti. Ho scelto una protagonista adolescente perché è il periodo della vita in cui si è convinti che il mondo ci appartenga. Volevo poi parlare della generazione nata sotto Ben Alì»
A cinque anni dalla rivoluzione tunisina, «miccia» delle primavere arabe, a Tunisi ha debuttato Appena apro gli occhi, il film d’esordio di Leyla Bouzid che racconta proprio il periodo precedente alla sollevazione popolare che ha portato alla fine della presidenza di Ben Alì. Attraverso la storia di Farah, cantante diciottenne che ha appena finito il liceo e sta per iscriversi all’università, facciamo esperienza di quelli che sappiamo essere gli ultimi mesi del regime, ma soprattutto della capitale tunisina vista attraverso gli occhi di un’adolescente idealista e sognatrice, che non vuole arrendersi alle imposizioni dettate dalla società che la circonda, a partire dalla sua stessa famiglia. Più o meno all’età della sua protagonista Leyla Bouzid, classe 1984, ha lasciato la Tunisia per studiare lettere moderne alla Sorbona a Parigi, dove ha frequentato il corso di regia a La Fémis. Il suo cortometraggio di diploma, Soubresauts, è ambientato tra la stessa piccola borghesia tunisina a cui appartiene la protagonista di Appena apro gli occhi. Dalla sua uscita in Tunisia nel gennaio 2016 Appena apro gli occhi ha già incassato 50 mila euro: «una cifra altissima nel mio paese», spiega la regista. «Ai più giovani è piaciuto molto, ma non soltanto a loro – continua Bouzid – in tanti hanno detto che il film li ha riportati al momento in cui è scoppiata la rivoluzione, e soprattutto all’oppressione che l’ha causata, e che è un bene ricordare». Leyla Bouzid è stata in Italia fino a pochi giorni fa per presentare il suo film in diverse città, tra cui Roma – dove Appena apro gli occhi sarà al cinema Farnese dal 12 maggio – e Firenze, dove il film è in programmazione allo Spazio Alfieri.
Come è nata l’idea di raccontare quei mesi del 2010 attraverso lo sguardo di un’adolescente?
Prima della caduta di Ben Alì non sarebbe stato possibile, non era consentito affrontare la società tunisina e i suoi fermenti. La rivoluzione è un evento di cui si è parlato molto: è stata raccontata, filmata. Ma nessuno aveva mai trattato il momento che l’ha preceduta: non credo sia possibile andare incontro al futuro senza riflettere sul passato, sulle cause di ciò che è successo. Ho scelto una protagonista adolescente perché i diciott’anni sono un momento della vita in cui si è convinti che il mondo ci appartenga, a prescindere da ciò che dicono gli altri. È il momento in cui Farah inizia a fare esperienza della vita al di fuori della sua famiglia. Tutti le dicono costantemente cosa non le è permesso fare, dire, pensare: la sua scoperta del mondo è filtrata dai divieti. Volevo poi raccontare la generazione che è nata sotto Ben Alì.
Il regime non è il solo a limitare la libertà di Farah. Anche il fidanzato la vuole solo per sé, le dice cosa non deve fare…
Per me Appena apro gli occhi non è solo un film politico: è la storia di un’adolescente che si confronta con tutti gli aspetti della vita, compreso l’amore. Il confronto principale resta quello con la famiglia e specialmente con la madre, che cerca di proteggerla mettendo un limite alla sua libertà. Poi c’è quello con la società. E lo stesso vale per Bohrene; dopo aver fatto l’amore con lei è convinto che Farah gli appartenga, ha paura che possa sfuggirgli. Ma soprattutto teme quello che gli altri potrebbero pensare di lui, e in questo modo riflette il sistema che regola il paese.
La madre di Farah è eccessivamente protettiva e ansiosa nei suoi confronti, ma alla fine è proprio lei a spingerla verso i suoi sogni.
Anche la madre attraversa un percorso di cambiamento e scoperta. All’inizio è molto protettiva, spaventata da quello che gli altri potrebbero fare a sua figlia. Ma è soprattutto lei a imparare da Farah, da ciò che le succede e dalla sua determinazione. Così giunge alla conclusione che sia più giusto incoraggiarla piuttosto che limitarla.
C’è anche un’opposizione di classe nel film: Ali, un membro della band di Farah, accusa i compagni di essere dei borghesi che non comprendono la realtà.
È Ali a vederli in questo modo, a pensare che loro siano dei borghesi perché non vengono dalla provincia, hanno studiato. Io li vedo come appartenenti alla classe media, non all’elite tunisina. Quello che Alì dice riflette il suo pensiero, e questa opposizione mi serviva per caratterizzare il suo personaggio, le sue frustrazioni. Così la sua figura non risulta solo bianca e nera, e le sfumature ci aiutano a comprendere da dove viene e la ragione delle sue azioni.
Qual è la situazione attuale della democrazia tunisina?
È un processo, un work in progress. Sono molte le sfide non semplici che si trova ad affrontare, come il terrorismo e la presenza di un gran numero di persone che preferirebbero tornare ai «vecchi tempi». Certo sono momenti pericolosi, ma poco a poco la democrazia si sta consolidando.
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