L’ultima condizione di Zingaretti: «Non sarà una staffetta»
Partito democratico Il Pd invia il segretario sul Colle con una standing ovation. Lui avverte: deve essere una svolta, non una manovra di palazzo
Partito democratico Il Pd invia il segretario sul Colle con una standing ovation. Lui avverte: deve essere una svolta, non una manovra di palazzo
È un applauso lunghissimo, «una standing ovation» la definiranno con senso di liberazione al Nazareno, quello che accoglie la relazione di Nicola Zingaretti nell’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, alle dieci di mattina, quando chiede il mandato per dare al Colle la disponibilità del Pd a verificare «con il presidente incaricato le condizioni politiche e programmatiche e contribuire a dare vita al nuovo governo». Pienone: c’è la direzione, i parlamentari, gli europarlamentari. I giorni della tensione potrebbero sciogliersi in emozione per un risultato – il nuovo governo – che se non raggiunto a quell’ora è a portata di mano. Sarebbe un’unità inedita nel Pd, al netto del no di Matteo Richetti e dell’addio di Carlo Calenda. Sarebbe un gran risultato. Se il Pd non portasse, scolpiti nel dna, altri applausi scroscianti finiti nell’opposto, come la storia del 101 parlamentari che bocciarono Prodi al Colle dopo essersi spellati le mani così.
«CONTE SARÀ IL CANDIDATO presidente indicato dai 5 Stelle», spiega, «riconosciamo in questa scelta l’autonoma decisione del partito di maggioranza relativa. Con questa volontà il M5S, ed è legittimo, rivendica la presidenza del governo. Ha rifiutato altre ipotesi. E in questa scelta è inciso il superamento di un modello sul quale si fondava il vecchio governo», «non c’è nessuna staffetta da proseguire e nessun testimone da raccogliere». Tradotto: il premier è in forza 5 Stelle, e non «super partes» come pretendevano i grillini. E il Pd non accetta lo schema precedente, dei due vicepremier: o vice unico, dem, o nessun vice.
È l’unica condizione che Zingaretti ha potuto mantenere ferma, dopo aver accettato il bis del governo Conte. A quest’ora il nodo Di Maio non è ancora sciolto: il vicepremier uscente non accetta di fare le valigie da Palazzo Chigi, strepita contro il «veto» posto su di lui. Di Maio fin qui ha ricevuto una gran mano dalla minoranza Pd che fa capo al senatore Renzi. Interlocutore coperto della trattativa, primo a dire sì al Conte bis, fino all’ultimo ha fatto circolare l’idea che in fondo si potevano accettare i capricci di un ex vicepremier disperato, pronto fino alla notte prima a far saltare tutto. «Il problema non è il nome di Di Maio, ma è inaccettabile presidente e vicepresidente dello stesso partito», devono dire a tarda serata «fonti del Pd», cedendo ancora un po’.
ZINGARETTI SI È RITROVATO con le armi spuntate e con i gruppi parlamentari schierati per la prosecuzione della legislatura, tranne pochi. Ha trattato su una linea non sua. Avrebbe preferito il voto, e poi mantenere più alta l’asticella della «discontinuità». Ha scelto, spiega ma è quasi una confessione, «sino in fondo la via della responsabilità. Senza calcoli, scorciatoie, doppie verità».
Il sottotesto è noto: è stato accusato di voler andare al voto per riallineare a sé i gruppi parlamentari da parte di chi non voleva andare al voto per non perdere i gruppi parlamentari. Ora rivendica la fatica: «In ogni momento di questa vicenda il Pd ha tenuto la barra e la schiena diritta». Chiede «un Governo nuovo, anche nei profili, e una svolta nei contenuti», anche «solo per convincere una maggioranza degli italiani che tutto quanto stiamo provando a costruire non è una manovra di palazzo». È l’estrema preghiera ai suoi. Al Pd andranno 8 o 9 ministri. I nomi che circolano per il nuovo governo sono da manuale Cencelli fra le correnti interne e smentiscono il congresso vinto solo pochi mesi fa sul tema della «rigenerazione». L’unico sasso nell’ingranaggio è l’equilibrio di genere.
È LA PARTITA CHE SI APRE da oggi con il premier Conte. Dopo questa se ne aprirà un’altra nel partito. Il segretario non ha la maggioranza dei parlamentari, non entra nel governo, conduce in porto un’operazione lanciata dall’ex segretario Renzi, capo di un partito nel partito e che dopo questo successo forse non avrà neanche più bisogno di fare la sua scissione. Al suo posto la fa Carlo Calenda, che non ha la politica nelle vene e non riesce a credere che quelli dei «mai con i 5 stelle» si siano trasformati in un giorno in quelli del «con i 5 stelle senza se e senza ma». Non si reiscriverà, la sua militanza è durata giusto il tempo di farsi eleggere a Bruxelles. Zingaretti lo esorta a restare. Ma forse un «centro» che non porti via energie al Pd è un effetto collaterale, magra consolazione, di tutta questa brutta storia.
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