L’ultima azione di resistenza di un partigiano
15 dicembre 1969 C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione»
15 dicembre 1969 C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione»
C’è stato un tempo in cui Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di confino di Ventotene, dirigeva la questura di Milano. In quegli uffici Guida trattenne illegalmente quello che nel 1944-45 era stato un giovane partigiano, Giuseppe Pinelli.
La guerra era finita da quasi 25 anni, ma l’ultima azione di resistenza fu compiuta da Pinelli proprio nella questura di Guida la notte del 15 dicembre 1969 quando morì precipitando dalla finestra della stanza del commissario Luigi Calabresi che lo interrogava illegalmente, con i suoi uomini, nonostante i termini del fermo di polizia fossero largamente scaduti e fosse suo diritto tornare libero a casa.
Al ferroviere anarchico i poliziotti volevano imporre un cedimento ovvero strappargli l’ammissione di una colpa inesistente: quella di essere responsabile, lui ed i suoi compagni, della strage di Piazza Fontana realizzata tre giorni prima dai neofascisti di Ordine Nuovo coadiuvati da uomini degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti dello Stato.
I poliziotti compirono un reato contro Pinelli (il fermo illegale) e gli mentirono durante l’interrogatorio con l’espediente del «saltafosso» (dicendogli che un altro anarchico da lui conosciuto, Pietro Valpreda, aveva confessato l’esecuzione del massacro).
Pinelli si oppose e con la sua resistenza rese vani gli intenti di chi si era proposto non solo di incastrare lui ed i suoi compagni ma di scrivere una storia diversa del Paese con la strage del 12 dicembre 1969 attraverso un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace; non rivendicata dagli esecutori materiali; realizzata con l’obiettivo di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica presso l’opinione pubblica per favorire un’involuzione autoritaria del nostro sistema costituzionale.
Erano gli anni, ha scritto Silvio Lanaro, in cui «il lealismo istituzionale» delle forze armate, delle classi proprietarie e delle forze politiche conservatrici «non riesce a reggere i socialisti al governo e i comunisti al 25% dei voti», anni in cui, affermerà il generale Mario Arpino in commissione stragi «per noi militari un terzo del Parlamento era il nemico». Per questo fu possibile che uomini dello Stato sostenessero e coprissero gli autori e depistassero le indagini rendendosi «doppiamente colpevoli», come ha affermato il Presidentede della Repubblica Stato Sergio Mattarella nel 50° anniversario, poiché «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia».
C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione».
La magistratura derubricherà come «malore attivo» la causa del volo nel vuoto del ferroviere e tale versione sarà incisa come verità ufficiale anche sulla targa collocata dal Comune di Milano in piazza Fontana che ricorda, con pudore omissivo, che Pinelli è «morto tragicamente». Accanto ad essa una stele rappresenta, invece, una memoria storica «altra» e reale della Milano democratica e antifascista. Lì si ricorda che Pinelli è stato «ucciso innocente».
C’è stato un tempo, infine, in cui il Parlamento, con voto quasi unanime, scelse di bocciare la mozione che proponeva il 12 dicembre come giornata in ricordo delle vittime del terrorismo e di votare al suo posto il 9 maggio (giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma). Una preferenza tanto politicamente «logica» per lo Stato quanto storicamente discutibile.
La Repubblica ha scelto di rappresentare quegli anni attraverso una narrazione autoassolutoria che racconta l’azione di un agente esterno alle istituzioni, le Brigate Rosse, che porta l’attacco al cuore dello Stato, omettendo al Paese il fatto che il fenomeno del terrorismo in Italia sia nato, molti anni prima, proprio da quel cuore. Questo Pinelli aveva capito, quella notte in quella questura. E dopo mezzo secolo, anche grazie a lui, lo sappiamo anche noi.
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