Lula Pena, la vertigine della sciamana
Incontri/La cantante e chitarrista portoghese racconta la sua arte e la passione per i viaggi «Penso che suonare da sola mi dia la possibilità di connettermi con più persone, apprezzare i silenzi e restare sempre aperta alle sorprese»
Incontri/La cantante e chitarrista portoghese racconta la sua arte e la passione per i viaggi «Penso che suonare da sola mi dia la possibilità di connettermi con più persone, apprezzare i silenzi e restare sempre aperta alle sorprese»
Lula Pena è una sciamana domestica, la sciamana della porta accanto. Non ha i ninnoli e gli arnesi dello sciamano, non si agghinda, non si trucca da sciamana, eppure nei suoi concerti si crea sempre quella specie di vertigine che ha a che fare con la trance, col far entrare il pubblico in una sorta di incantamento, di shining, di gorgo stupefatto. Questa cantante e chitarrista portoghese usa solo la fascinazione della sua voce e della sua chitarra, null’altro, nulla di più. Qualcuno ha provato a relegarla nel recinto del fado, ma chi ascolta la sua musica e soprattutto chi la sente dal vivo capisce ben presto che la sua musica sta al fado come la musica di Joni Mitchell sta al folk rock, cioè vi si lega in un modo obliquo, tangenziale. Un’adesione forte, ma non esclusiva.
La sua carta d’identità dice Portogallo, nata e cresciuta a Lisbona, ma lei ha vissuto anche in Spagna, Belgio, Francia, Olanda… in una sua vecchia intervista si trova una frase bellissima: «Ho cercato anche di vivere anche in altri posti, ma non ci sono riuscita».
Ho sempre viaggiato, fin da piccola. Lo facevo da ferma ascoltando la radio, cercando le stazioni in AM per scovare emittenti all’altro capo del mondo. E poi l’ho fatto a scuola perché ho avuto un’insegnante bravissima che anziché darci il titolo di un tema ci diceva «andate fuori e ascoltate», poi trascrivete. Io andavo in giro per il mio quartiere a Lisbona, ascoltavo le chiacchiere della gente, il rumore del traffico, i sibili del vento, l’abbaiare dei cani e mi sentivo come una piccola esploratrice. La mia prima esperienza musicale cosciente è stata l’ascolto. Trasporre questa attitudine nomade nella mia vita e nel mio lavoro di musicista è stata una cosa molto naturale. Per questo sono sempre affamata di «geografie» e i posti dove sono stata, dove ho vissuto, non mi bastano mai. Per me abitare un luogo significa anche abitare una lingua e le lingue hanno bisogno di tempo, di pazienza, di dedizione. Solo dopo questo tirocinio sulla lingua posso dire di avere la cittadinanza di un luogo.
Lo strumento musicale diventa un po’ la casa di un musicista. Nel suo caso gli strumenti sono due. Come li fa convivere. Quante attenzioni dà all’una e quante all’altra? Quale sente più accogliente e confortevole?
Quella della casa è una bella immagine, che condivido. In effetti nel mio caso si tratta di una piccola architettura sonora in cui una chitarra suonata da autodidatta, in modo totalmente anticonvenzionale, si posa su una voce come la mia, che ha una grana molto definita. È come dover arredare una bella stanza con una metratura irregolare: occorre fare molta attenzione, conoscere bene le traiettorie della luce al suo interno e non esagerare coi dettagli d’arredo. Quando suono la chitarra e canto si innescano vibrazioni che sono insieme qualcosa di più e di altro rispetto alla semplice somma di queste due componenti. È il classico caso in cui uno più uno non fa due, fa di più. È una concezione olistica della pratica di musicista, che non si nega la matrice ludica, ma allo stesso tempo è sempre attenta a qualsiasi novità.
L’ha sempre suonata così la chitarra? Cercando gli armonici anche sulle corde mute, utilizzando una diteggiatura non mainstream, soffiandoci dentro con la bocca, percuotendola?
La mia tecnica è quella di un’autodidatta, per cui ti potrei rispondere che sì. È sempre stato così, una sorta di esplorazione del buio con una torcia in mano. A un certo punto mi sono anche trovata a pensare che il mio percorso fosse finito, perché non avevo il background per affrontare strade più impervie sullo strumento o per capire quale fosse il tratto di strada più corto per arrivare da un passaggio all’altro. Poi, quando stavo addirittura pensando di provare a imbracciare uno strumento nuovo, magari sempre un cordofono, per ritrovare lo spirito naif e lo stupore che avevo quando ho iniziato a suonare la chitarra, ho scoperto le accordature aperte. E mi si è aperto un mondo. Suonavo la stessa chitarra, ma la coreografia delle note e degli accordi prendeva traiettorie completamente diverse. La mia manualità attingeva a nuove pratiche e anche la mia voce reagiva in modo inedito. In Troubadour ho iniziato questo tirocinio, poi in Archivio pittoresco l’ho approfondito davvero. È un percorso ancora in divenire. Se a un certo punto mi sembrerà di avere esplorato abbastanza le accordature aperte, magari tornerò a pensare di imparare un nuovo strumento o di mettere qualche altro musicista al mio fianco sul palco.
La vediamo spesso esibirsi in piena solitudine. È un contesto che predilige?
In realtà mi piacciono moltissimo anche le jam session, mi piace suonare all’impronta, improvvisare. Ma è vero che la mia carriera è caratterizzata da questo solipsismo performativo. Sembrerà un paradosso: io penso che suonare da sola mi dia la possibilità di connettermi con più gente, conoscere meglio i miei strumenti, apprezzare i silenzi e restare aperta alle sorprese.
Tre dischi in più di vent’anni, non si può certo dire che la sua attività discografica abbia frenetiche cadenze. È un modo anche questo per ribadire le sue libertà o cos’altro?
È una somma di esigenze biografiche e di modalità espressive. Il mio nomadismo non favorisce un iter normale dal punto di vista produttivo e allo stesso tempo probabilmente sono proprio io che ho bisogno di tempi lunghi per ruminare e macerare le cose che creo.
L’ultimo album resta quell’ «Archivo pittoresco» che adottava un titolo che era quasi un concept: un elogio dell’irregolarità, una spinta ad accordarsi col flusso randomico che imita le dinamiche della natura. Un po’ come fecero i pittori a cavallo tra XVIII e XIX secolo…
Il canone, il mainstream a volte può diventare un ostacolo e gli artisti a un certo punto cercano di superarlo, di oltrepassarlo. L’elogio dell’irregolarità è qualcosa di più di uno sfizio capriccioso: è una vera e propria dichiarazione di poetica che nel caso dei pittori che citavi ha sovvertito la storia dell’arte. Mi piaceva connettermi, umilmente, con quell’attitudine, ribadire che anch’io provo a stare dalla parte di chi osa, di chi non si lascia addomesticare. È una tattica che avevo già sperimentato anche in Troubadour, il mio secondo disco, laddove avevo diviso le mie canzoni in Atti (Atto primo, Atto secondo…). Avevano tutte delle durate inconcepibili per la discografia commerciale: duravano dai sei ai tredici minuti. Eppure a me sembrava che non potessero essere che proposte così, in quella forma dilatata. E così le ho fatte uscire.
L’ultima volta che abbiamo ascoltato un suo concerto abbiamo contato almeno sei idiomi diversi (portoghese, inglese, francese, spagnolo, italiano e sardo)… le piace zigzagare tra gli idiomi? Ci sono canzoni che stanno bene con una sola lingua?
Mi piace molto cantare in diverse lingue e rispettare il testo originale. Anche se condivido quello che scrive Umberto Eco e cioè che «il poliglotta è quello che capisce, non necessariamente quello che sa parlare», credo anche che la scrittura sia già in sé un tipo di musica. Le parole contengono già i codici di come devono essere cantate, suggeriscono l’articolazione, spingono l’interprete nei punti esatti in cui va sottolineata una sezione in maniera più enfatica. Le parole originali danno una visione in 3d di una canzone, tradurle è pericoloso. Io posso fare una pizza portoghese con le aringhe e il bacalau, ma una pizza verace, napoletana è un’altra cosa.
LA BIOGRAFIA. MASSAGGI SONORI
In un quarto di secolo di attività professionale Lula Pena ha pubblicato tre album bellissimi. Tre soli album, sufficienti a consegnarle una fama internazionale da diva in continua fuga dalla celebrità, e i complimenti di Caetano Veloso che la considera, molto semplicemente, «una delle più grandi voci viventi». Nata nel 1974 e cresciuta a Lisbona, Lula Pena ha esordito ventiquattrenne con un disco, «Phados», per sparire dai radar fino al 2010, anno di uscita dello splendido «Troubadour». Da lì, una traiettoria nel circuito della world music, un passaggio anche al Womex, fino al suo ultimo disco, «Archivo pittoresco», che esce nel 2017 per una delle etichette di punta del settore, la Crammed. Gli appassionati che attendono la sua prossima mossa discografica sanno che ci sono tante latitudini che si incrociano nel suo background e tutto quel che le capita tra le mani semplicemente si «lulapenizza», prende un tono tutto suo, si trasforma – lo dichiara lei stessa – in un vero e proprio «massaggio sonoro». (v.co.)
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