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Luiz Ruffato, sempre la stessa assenza da una vita mai ritrovata

Luiz Ruffato, sempre la stessa assenza da una vita mai ritrovataCarlos Moreira, Guarujá, 1990

Narrativa dal Brasile Due i fili lungo i quali corre l’ultimo romanzo dello scrittore brasiliano, «il passato della memoria e il presente della città»: «La tarda estate», ora tradotto da La nuova Frontiera

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 10 gennaio 2021

«Strada senza ritorno, errori che portano ad altri errori, e cinquantatré anni buttati al vento. È questa la vita?» si chiede Oséias, il protagonista di La tarda estate, l’ultimo romanzo dello scrittore brasiliano Luiz Ruffato (tradotto lodevolmente da Marta Silvetti, La Nuova Frontiera (pp. 239, € 17,50). Fin dalle prime pagine, l’intreccio presenta l’impietoso bilancio di vita di un uomo che torna a Cataguases – cittadina dell’entroterra brasiliano – per fare i conti con il suo passato, e per riannodare «i fili che legano l’inizio e la fine», immerso nell’irrimediabile apatia di un’esistenza senza futuro.

Come nell’incubo che apre il romanzo, Oséias sprofonda nella palude della solitudine e dell’indifferenza tentando disperatamente di aggrapparsi ai frammenti di un doloroso passato, che emergono dal racconto di sei – decisivi – giorni del suo desolante presente. Dopo circa vent’anni di lontananza, il protagonista di La tarda estate ripercorre le strade della sua infanzia, «questi alberi mi hanno vegliato, questo selciato ha accompagnato i miei passi…I muri hanno le orecchie, ma non la bocca. Se l’avessero, racconterebbero del bambino magro che volava per la città con la sua bicicletta Caloi verde, ingoiando il paesaggio»; ma ciò che avverte non è appartenenza, piuttosto un profondo senso di estraneità che gli impedisce di ritrovarsi.

Uno spettro si aggira nel passato
I luoghi in cui è cresciuto non evocano in lui ricordi nostalgici, bensì l’amarezza di una vita non vissuta appieno, il senso di fallimento di un uomo che si sente una «rappresentazione di me stesso, assuefatto a concordare sempre, sempre a dissimulare le mie opinioni o i miei sentimenti, sempre più isolato».

Afflitto dallo stesso taedium vitae che da giovane lo aveva allontanato da Cataguases in cerca della felicità, Oséias vi ritorna come un «fantasma spaventato, che urta corpi che si muovono irrequieti per i territori del passato», provando a dare un senso a quanto resta di un’esistenza segnata dall’inadeguatezza e da una inespiabile colpa. «Sono morto insieme a Lígia – confessa Oséias – sono diventato questo, un corpo senza spirito, che desidera…e teme…la fine…».

Come uno spettro, il protagonista riappare nella vita di familiari e conoscenti per recuperare quello stesso passato al quale aveva tentato, invano, di sfuggire, diventando via via abulico e irresoluto. Proprio nella constatazione di una inaggirabile manchevolezza – «E sempre nel mio sempre la stessa assenza», recita il verso in esergo tratto da Il sepolto vivo di Drummond de Andrade – Oséias compie un’ultima e definitiva fuga, nel tentativo di ritrovare ciò che aveva sempre desiderato: «quella serenità che proviamo quando rientriamo in casa, chiudiamo la porta, stacchiamo dal mondo». Ma di quel rifugio, di quel mondo di illusorie certezze, non resta altro se non un cumulo di rovine, simbolo della fine di una stagione della vita che non tornerà: il riandare al passato del protagonista del romanzo di Ruffato si rivela dunque inattuabile.

Attraverso gli occhi di Oséias è possibile osservare una realtà in cui tutto «provoca ripugnanza», e l’attitudine introspettiva del protagonista diventa così anche una riflessione sulla società brasiliana contemporanea. Come Ruffato ha avuto occasione di dire in alcuni recenti articoli, La tarda estate si presta a una doppia chiave di lettura: realista, per ciò che riguarda le vicende di Oséias; allegorica per quanto allude al contesto storico-sociale brasiliano, dove «le classi sociali hanno interrotto il dialogo».

Fra mediocrità e consumismo
I due fili della narrazione, «il passato della memoria e il presente della città», si intrecciano, e nemmeno Cataguases corrisponde all’immagine da cartolina che ne viene spesso diffusa, costituendo lo scenario su cui si proietta il disgusto e l’insofferenza del protagonista.

«Accattoni e venditori ambulanti si contendono i passanti. Nei caffè, bar e ristoranti, televisori accesi ipnotizzano gli avventori», il declino e il degrado testimoniano di un mondo dominato dalla mediocrità e dal consumismo. Così, l’alienazione del protagonista allude a una società narcotizzata dall’appagamento dei propri bisogni materiali, un contesto che strappa gli individui alla loro dimensione più autentica e li assoggetta alla tirannia di un presente senza passato e senza futuro: «Non farti logorare dal passato… Esiste solo il presente. Questo istante, ora. Hic et nunc…Nient’altro», suggerisce a Oséias un vecchio professore. Nessuna consolazione è all’orizzonte, piuttosto il racconto di una vita ordinariamente autentica, mentre dalla pagina scritta riemerge lo stesso inquietante interrogativo del protagonista: è proprio questa la vita?

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