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Luisa Lambri, lo spazio diventa astratto

Luisa Lambri, lo spazio diventa astratto«Untitled» (100 Untitled Works in Mill Aluminum, 1982-1986, #01)

Intervista L'artista presenta il suo «Autoritratto», in mostra al Pac di Milano fino al 19 settembre

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 5 giugno 2021

Sarà per il verde del giardino della Villa Reale che entra nell’ambiente del piano inferiore del Pac attraverso le grandi vetrate – membrane che separano e, proprio per via della trasparenza, uniscono interno ed esterno – che si può (forse) azzardare una similitudine tra questo lato del Padiglione di arte contemporanea costruito tra il 1951 e il ’53 dall’architetto-ingegnere Ignazio Gardella e Farnsworth House, la dimora di vetro progettata da Ludwig Mies van der Rohe a Plano, Illinois, tra il 1945 e il ’51.

In questa «casa in pelle e ossa» la percezione della natura e della luce è dominante nello spazio architettonico. Un analogo processo di presa di coscienza dell’esperienza sensibile attraverso la luce, le architetture di Rudolph Schindler, Álvaro Siza, Luis Barragán, Mies van der Rohe e, tra gli altri, Richard Neutra, Walter Gropius, Giuseppe Terragni e le opere d’arte contemporanea di Lucio Fontana, Donald Judd, Lygia Clark, Light and Space Movement attraversa anche il lavoro di Luisa Lambri (Como 1969, vive e lavora a Milano) a cui il Pac dedica la personale Autoritratto, a cura di Diego Sileo e Douglas Fogle (fino al 19 settembre).

Un nucleo di sei opere è esposto contemporaneamente alla Quadriennale d’Arte 2020 Fuori (curata da Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol) a Palazzo delle Esposizioni di Roma (prorogata fino al 18 luglio). Quello dell’artista – il cui lavoro fa parte di collezioni internazionali quali SF Moma – Museum of Modern Art, San Francisco, J. Paul Getty Museum, Los Angeles e Solomon Guggenheim Museum, New York – è un percorso elaborato procedendo per sottrazioni. Come diceva Agnes Martin riferendosi alla pittura «è una specie di mappa ed è una mappa delle tue risposte interiori».

Untitled (Casa Fernando Millan, #01)

 

 

Un elemento che emerge in maniera preponderante in questo progetto espositivo è la scansione spazio-temporale attraverso la serialità…
Queste sono fotografie di architettura o di opere d’arte con cui ho un qualche tipo di relazione, che mi hanno ispirata o con cui instauro una specie di dialogo proprio attraverso il mio lavoro.
Non sono fotografie descrittive né di documentazione, sono delle visioni molto soggettive. Il senso del mio lavoro è un po’ quello di riportare la mia esperienza di questi luoghi o di queste opere d’arte.
Fotografo solo alcuni piccoli dettagli, non mostro nessuna visione totale oppure mi avvicino sempre molto, quindi si tratta proprio di suggerire più che descrivere. Ogni tanto attraverso le serie – prospettive diverse o piccoli cambiamenti – si può risalire a quella che era la mia posizione nello spazio mentre fotografavo.
Si può anche intuire che ho passato tanto tempo in quel luogo, per cui ci sono stati dei cambiamenti di luce. Più il mio lavoro è incompleto e più funziona, perché riguarda l’ambito dell’astrazione e ciò serve a lasciare spazio alla visione altrui.

Anche la palette rientra in questa visione di uno spazio che ambisce all’astrazione…
Sì, è importantissima. Infatti il lavoro che svolgo in laboratorio riguarda più che altro il togliere i colori.
A parte la piccola immagine del vaso che è in bianco e nero, tutte le altre sono fotografie a colori più vicine ai monocromi. In realtà nei posti che ho fotografato c’erano molti più colori, ma li ho tolti uno per uno, abbassati o ridotti proprio per avere più spazio per l’interpretazione.

Lo scarto temporale tra il momento dello scatto e il lavoro in laboratorio è altrettanto importante?
Tutti i lavori sono Untitled – senza titolo – poi, tra parentesi, è riportato il nome dell’edificio o dell’opera d’arte. Quell’Untitled indica semplicemente che si tratta di un’altra cosa, non è più quella originaria. È il mio lavoro, non più quello degli autori citati e l’anno che compare nel mio titolo è legato al momento in cui ho realizzato la fotografia. Uso la pellicola e una macchina di medio formato poi faccio delle scansioni di tutto. Ma il lavoro vero è quello che faccio in laboratorio, perché attraverso le tecnologie digitali con dei bravi tecnici è possibile lavorare ulteriormente su questo processo di trascendenza.
Mi allontano ancora di più dai dati reali e vado nell’ambito delle dimensioni mentali. Le fotografie diventano ancora meno relative dal punto di partenza e questo succede in moltissimi modi, per esempio togliendo i colori o modificandoli, lavorando sulle luci, sulla percezione generale.
Ogni tanto ci sono degli interventi più rilevanti, per esempio ricostruire o cambiare, togliere. Fondamentalmente è un gran lavoro di trasformazione. Poi, però, le fotografie vengono stampate con un processo analogico, ritornando a essere fotografie vere. Tutte le cose che fotografo riportano, anche se non in maniera esplicita, dei riferimenti molto precisi a quegli architetti o artisti. Non sono mai fotografie gratuite o casuali, ma sempre molto precise: devono onorare la fonte.

Da una parte la fonte, dall’altro il processo di distanziamento dalla fonte stessa: quali sono le influenze che ti portano in questa direzione?
C’è l’influenza del minimalismo nel senso che con mezzi minimi è possibile invitare un tipo di partecipazione altrui, sia fisica che mentale, che qui è anche emotiva. Per intenderci è il tipo di minimalismo di Agnes Martin che diventa una trascendenza totale.

Io non raggiungo assolutamente quei livelli sublimi (sorride), ma di sicuro gli artisti o le artiste che hanno occupato i miei pensieri sono quelli come lei che usano il minimalismo, la ripetizione ossessiva delle ricerche profondissime con dei mezzi veramente minimi – qualche riga e griglia, pochissimi colori – ma raggiungendo degli stati di meraviglia assoluta. Non ho mai guardato i libri di fotografia dell’architettura, ma come dicevo quelli sul lavoro di artiste come Agnes Martin o Vija Celmins che hanno passato la loro vita lavorando in solitudine, autonomia e con la ripetizione portata all’estremo. Naturalmente ho un enorme rispetto per autori come Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Guido Guidi che operano nell’ambito della fotografia. Però non mi sento di far parte di quel campo, il mio è un altro.

Quest’esposizione, in particolare, mostra le mie due identità. Quella italiana che riguarda più la tradizione dello spazialismo, che qui è apertamente dichiarata con il riferimento a Fontana e, allo stesso tempo, quella californiana – dove ho vissuto a lungo – del Light and Space Movement con Robert Irwin, Larry Bell, Mary Corse e tutti gli artisti che hanno sempre lavorato con la luce e lo spazio per farne un’esperienza e nient’altro. C’è, poi, l’architettura del Pac di Gardella che è fondamentale perché nel mio lavoro sono sempre gli spazi che suggeriscono delle immagini che possono avere senso lì. In questo caso abbiamo una serie di stanze ottime per creare delle esperienze più intime e permettere di lavorare sulla serialità e ci sono anche le lunghe, grandi finestre sul parco che fanno entrare la natura. Ho pensato a lavori che ho realizzato tra il 1999 e il 2017 che avessero delle similitudini con quest’architettura e che installandole potessero lavorare con lo spazio in modo da attivarlo. La parte della natura è stata affrontata montando le fotografie – Untitled (Sheats-Goldstein House) – su lastre di vetro autoportanti sui piedistalli realizzati da Lina Bo Bardi (a cui la Biennale d’Architettura 2021 ha assegnato il Leone d’oro speciale alla memoria, ndr) per il Museo di arte moderna di San Paolo del Brasile, riprodotti in collaborazione con l’Istituto Bardi di San Paolo, mostrando però prima il retro delle fotografie per rivelarne la storia più privata che di solito è invisibile.
Per vedere il vero lavoro bisogna andare all’esterno, oppure passarci in mezzo, avvicinandosi molto per creare un’esperienza più familiare e soggettiva che è la soggettività di Carla Lonzi.

Anche nel titolo della mostra – «Autoritratto» – è citata Carla Lonzi…
È proprio un omaggio a Carla Lonzi, alla prospettiva umanistica del suo lavoro. Autoritratto è la sua opera collettiva fatta di tante voci in cui tutti parlano in prima persona. Proprio quello che succede anche qui. Tante voci in rapporto con l’architettura che permettono ai visitatori di far parte del lavoro attraverso la loro percezione e il cambiamento che si determina con il loro muoversi nello spazio.
Questo è l’«autoritratto» di Carla Lonzi che speravo potesse emergere, un discorso più allargato, collettivo e questa prospettiva umanistica più che fotografica.

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