Mi hanno detto che vogliono sfrattare Luigi Serafini dal suo appartamento-studio. NO! ho pensato NO! bisogna impedire questo delitto perché questa casa è un’opera d’arte in sé che non deve andare distrutta, cosa che avverrebbe inevitabilmente se la proprietà, attualmente dell’Ordine dei Cavalieri di Malta che possiedono l’intero palazzo, passasse in mani incolte, ingorde e speculatrici.

Così sono andata nella tana del lupo a trovare Luigi l’autore del libro più strano del mondo come lo descrive nella prefazione Italo Calvino: «Nel 1976 in una stanza di via Sant’Andrea delle Fratte a Roma, con un gatto accoccolato sulle sue spalle ’forse a dettarmi tutto’ Luigi Serafini iniziò a disegnare il Codex Seraphinianus, considerato oggi il volume più strano al mondo.
Un libro «dove l’anatomico e il meccanico si scambiano le loro morfologie… dove il vegetale si sposa al merceologico, lo zoologico al minerale… così il cementizio e il geologico, l’araldico e il tecnologico, il selvaggio e il metropolitano, lo scritto e il vivente».

Pubblicato nel 1981 da Franco Maria Ricci le cui tavole originali sono esposte nel labirinto della Masone nella Fondazione FMR, nel 2021 Rizzoli ne ha celebrato il 40° anniversario con un’edizione speciale. Pubblicato in moltissimi paesi Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Stati Uniti, ecc. perfino in una falsa copia cinese clonata che campeggia in bella vista a casa Serafini.

Erano le 9 del mattino quando sono entrata a casa dell’amico Luigi le 4.30 del pomeriggio quando ne sono uscita. Attraversando lo specchio come Alice sono caduta nel mondo alla rovescia in cui il tempo del passato è diventato solo una dilatazione del presente, come se guardandoci reciprocamente in uno specchio ci vedessimo come siamo e come eravamo, noi due ragazzi insieme a tanti altri, e gli strati della memoria si sono svegliati e sovrapposti nel gioco del riconoscimento.
C’è stato un tempo magico, dalla fine degli anni ’50 alla fine degli ‘ 80, in cui il centro di Roma non era illuminato a led, controllato da milioni di telecamere, trasformato in una puzzolente trattoria a cielo aperto, invaso da giganteschi, soffocanti ed insopportabili pullman da cui escono frotte di turisti incolonnati sudati e robotizzati, mercificato fino a sconvolgerne l’anima, da sempre debole eppure ancora stravagante ed imprevedibile. Era il tempo degli artisti, delle avanguardie, il tempo delle parole, dei segni, il tempo del gioco, da sempre per sua stessa natura contro l’ordine costituito, alla ricerca del meraviglioso disordine creativo, dell’ironia surreale, il tempo della libertà intellettuale. Pittori, scrittori, attori, architetti, poeti, registi, musicisti e semplici curiosi affamati di conversazioni colte o bizzarre si incontravano senza doversi neanche dare appuntamento nello sbrindellato e magnifico salotto che il centro di Roma offriva generosamente a chi l’abitava e l’amava. Il colore prendeva il sopravvento sul grigio e i tatuaggi erano quelli dei carcerati fotografati da Grifi. Cercavamo nuovi linguaggi e forme per uscire dalla cupezza di un dopoguerra grigio, bigotto e democristiano cercando di combatterlo a colpi di colori, suoni e humour noir uscendo dai confini geografici e mentali alla ricerca di nuovi mondi e culture.
A quegli anni, alla metà anni ’70, risale l’amicizia con Luigi Serafini, per me cominciava l’avventura nel teatro con la Gaia Scienza mentre lui disegnava il Codex Seraphinianus.

Nel 1980 partecipammo entrambi, lui da pittore disegnò la locandina, io da performer con gli altri della Gaia scienza insieme a Guido Zaccagnini di Spettro Sonoro e ad Armando Adolgiso, alla realizzazione di Variation 3 di John Cage nella piazza di Sant’Ignazio a Roma. L’assessore alla cultura era Renato Nicolini, era l’anno della strage di Bologna e del terribile terremoto di Napoli e molti artisti erano arrivati in Italia per aiutare la città a resuscitare e il geniale gallerista Lucio Amelio aveva invitato Warhol e Beuys a incontrare noi italiani; un periodo di grande creatività e, nonostante le tragedie o proprio per reagire a quelle, ci sembrava nel nostro piccolo che la cultura avesse un potere terapeutico, salvifico e rivoluzionario, eravamo ancora lontani dal : «con la cultura non si mangia».

È stato un tempo ribelle, anarchico, irrefrenabile, curioso, colto, ironico, debordiano, patafisico, futurista, surrealista, sperimentale frutto di una libertà di pensiero e linguaggio che al presente sembra sia scomparsa del tutto. È necessario quindi difendere questo luogo dell’arte, quest’universo dell’ingegno e della sconfinata fantasia. Perderlo sarebbe un altro duro colpo di spugna alla memoria e all’identità di questa città che cancella uno dietro l’altro i luoghi di quel periodo. Spazi e tempi rubati alle Istituzioni di Governo e Chiesa che, così ingombranti, da sempre, occupano Roma senza mai riuscire a guardarla e capirla da vicino e che, fortunatamente e inconsapevolmente nella loro benemerita distrazione, in quegli anni hanno concesso alla cultura di esprimersi liberamente.

La casa di Serafini va protetta è necessario impedire che scompaia come le tante librerie, i cinema, teatri, botteghe artigiane, gallerie d’arte, fornai, macellai, fruttaroli, mercerie, colorai e tutto ciò che rendeva la città amica a chi l’abitava da sempre o anche per poco per evitare che si trasformi tristemente in un’ininterrotta sequenza di alberghi, pensioni, B&B, supermarket, rivendite di cibo, food, meal, in tutte le possibili versioni, confezioni, esalazioni, indigestioni…. e non si tratta del pranzo futurista preparato da Giordano Falzoni in piazza del Paradiso davanti alla galleria di Fabio Sargentini. Proprio Giordano Falzoni (poliedrico artista pittore e attore nato a Zagabria nel 1925 animatore della Compagnie de l’Art Brut che negli anni ‘50 era amico di Breton, di cui aveva tradotto Nadja per Einaudi, di Dubuffet e di Michaux) è tra i primi a materializzarsi nella nostra conversazione a proposito della biblioteca che si incontra entrando nello studio e che contiene migliaia di volumi con grande varietà e rarità Luigi racconta: «qui ho il codice di Amurabi, in un edizione vaticana degli anni ’30 in cui c’è tutta la parte cuneiforme, poi tradotta in latino, che trovai durante un viaggio in pulmino che ho fatto nei primi anni ’70 in cui sono arrivato fino a Babilonia e ho visto quel mondo arabo prima della guerra del Libano di cui si sentiva ancora nell’aria l’antichissima storia , anche quella egizia pre-araba, questo per me è una specie di libro profetico e protettore e poi L’antologie de l’humor noire di Breton con la dedica di Breton a Giordano Falzoni che me lo regalò e che posso dire è stato il mio mentore, lo conobbi nel 1982 poco dopo la pubblicazione del Codex, e che è stato per me un faro, un personaggio veramente patafisico, ecco questi sono i due pilastri della mia libreria».

Nell’incrocio delle coincidenze che ci legano devo dire che anche Alberto Grifi considerava Falzoni come un suo mentore e con lui e su di lui girò almeno due film e anche io l’ho conosciuto, in quegli anni, con il suo sguardo lunatico e divergente, il suo schiacciaparole e la eat art (arte da mangiare).

Luigi continua: «A proposito di Patafisica nel 2016 a Parigi sono stato insignito della carica di Satrap Transcendant, Satrapo Trascendente, che mi ha permesso di entrare nel Collège de Pataphysique, Collège che ha incluso alcuni italiani di cui al momento io sono l’unico rimasto perché non ci sono più né Umberto Eco, né Dario Fo, né Sanguineti».

Ahh la patafisica! Jarry ! Père Ubu! ovvero la felicità della crudeltà nel linguaggio. All’ingresso dell’appartamento sullo zerbino davanti alla porta c’è l’icona di King Botto come dire: benvenuti qui non c’è nulla di normale. La stessa icona era presente nella scenografia e nei costumi bellissimi che Luigi ha fatto per la messa in scena di un Ubu Re molto napoletaneggiante, regia di Fabio Cherstich, nel teatro Argentina completamente invaso dalla sabbia. Un Ubu che Serafini mette in relazione a Pulcinella e mi racconta : «Nel 2021 in occasione della messa in scena di Ubu Re, ho ritradotto dal francese direttamente l’Ubu Roi e ho fatto una scoperta quasi archeologica perché Alfred Jarry in un monologo in cui Mère Ubu parla di Père Ubu, lo descrive come un Pulicenelle cioè un Pulcinella, nelle traduzioni italiane nessuno usa il termine Pulcinella ma dei sinonimi come buffone, istrione questo è abbastanza curioso e strano dato che è una maschera famosissima in Francia perché Tiberio Fiorilli, figlio di Silvio Fiorilli il primo commediografo che portò Pulcinella in scena, è l’inventore di Scaramouche e beniamino di Luigi XIV, il re Sole, che lo protesse fino alla fine, è incredibile che quasi per una specie di pudore non sia mai stato nominato».

Di Pulcinella a casa Serafini ce ne sono molti, messi lì a irridere dolcemente i visitatori, uno diverso dall’altro, ma sempre celati dietro la maschera nera da cui ogni tanto esce uno sberleffo linguacciuto.
Saltando come uno stambecco da un argomento all’altro nella biblioteca borghesiana della sua memoria Luigi l’architetto racconta: «Il mio è stato l’incontro di un romano con Milano in qualche modo è come se entrassi nella metro a Termini a Roma ed uscissi in quella di corso Buenos Aires a Milano. Queste due città per me si sono fuse in un’unica metropoli. Perché anche se il Codex è stato disegnato a Roma ha potuto vedere la luce solo a Milano, qui non credo sarei riuscito a pubblicarlo, dove è avvenuto l’incontro con Franco Maria Ricci a cui avevo fatto «la posta». Il Codex è stato circondato da una sorta di cerchio magico: avrebbe dovuto scriverne l’introduzione Roland Barthes che poi morì e fu sostituito da Calvino, e poi c’è stato Federico Zeri, altro mentore insieme a Federico Fellini, che vedevo spesso qui, a cui avevo mandato La voce della luna di Cavazzoni che avevo trovato appena arrivato in una libreria di via del Gesù, e che sembrava scritto apposta per lui, dopo qualche anno mi chiese dei disegni da accompagnare al progetto quando ancora cercava di mettere insieme la produzione per quello che poi è stato il suo ultimo film, pensa che Fellini, che assomigliava molto a mio padre, mi aveva chiesto di interpretarlo nell’Intervista, ruolo poi giocato da Sergio Rubini, ma io, intimidito e spaventato dall’idea non ho voluto. Anche Leonardo Sciascia, che è venuto in questa casa, mi aveva chiesto dei disegni per La strega e il capitano, suo ultimo racconto, che doveva pubblicare sul Corriere della sera ma il direttore che ai tempi era Ostellino non li volle.

L’altro incontro fulminante per me architetto è avvenuto a Milano ed è stato quello con il design che in quel momento era molto artistico perché era uscito dalla gabbia della produzione Brianzola, che ai tempi era assolutamente preminente, la Maragadal dell’immaginaria Brianza-Argentina inventata da Gadda nella Cognizione del dolore, e che negli anni ’80 s’ibridava con l’arte e io non potevo rimanere insensibile a questo richiamo, che fa comunque un po’ parte della tradizione italiana, se pensi alla leggenda per cui si crede che la divisa delle guardie svizzere siano state disegnate da Michelangelo, leggende che però ti danno l’idea che qui tutto si sia sempre mescolato, l’alto e il basso, l’artista e l’artigiano, infondo in greco arte si dice tèchne, in Italia c’è sempre stata questa straordinaria mescolanza. In questa casa pian piano, dall’87 in poi, naturalmente, quando avevo bisogno di qualcosa non andavo a cercare in qualche negozio, no, le reinventavo, come queste sedie su cui siamo seduti, che sono del primo novecento e che avevo trovato nella casa di mia nonna, e poi le ho colorate e ho aggiunto delle rotelle, le ho ibridate o per esempio gli sgabelli che ricordano forse un po’ Sottsass, perché nell’81 ho fatto parte della prima Menphis, anche se sono andato via praticamente subito.

In questo luogo tutto quello che c’è, quindi l’arredo, ha trasceso quello che è l’idea di mobile seguendo un po’ quell’idea degli anni ‘80 in cui si andava oltre la funzionalità dell’oggetto, qui ho modificato tutto, qui tutto è mobile ma anche arredo o scultura, qui c’è un continuo uso del colore che nasce proprio da quel periodo, prima il colore era lontanissimo e questa cosa me la sono portata appresso per cui non posso pensare ad un oggetto domestico e semplicemente comprarlo, no, ho sempre voglia di reinventarlo o trovare l’antico e trasformarlo, e questa ibridazione è un valore, che può andare perduto, il senso della casa è questo è un opera che ricorda anche un’ epoca e quindi è un valore storico, e tutte le persone che ci sono passate sono in qualche modo presenti «in spiritu» qua dentro. Se poi gli anni ’80 siano stati importanti o no, ai posteri l’ardua sentenza, però è certamente stato un momento magico, Alchimia, Memphis, Mendini, un momento in cui tutto nasce a Milano che era la patria del design e ci venivano da tutto il mondo».

La conversazione con Luigi va avanti tra racconti meravigliosi come la storia di Pedaso paese ai piedi del fiume Aso che nasce dai monti sibillini dove lui trascorreva le vacanze bambino che si collega al vulcano Aso in Giappone attraverso la presenza di Monsignor Mario Giardini milanese e barnabita che aprì la prima nunziatura apostolica in Giappone nel 1920, e fu ospite in una villa di un suo zio, bibliofilo e giocatore, che si affacciava nella valle dell’Aso dove il vescovo morì.

E poi la storia di Giuliano l’apostata che tentò di riportare gli Dei pagani, o quella del cognato di Buzzati….
Insomma potrei ascoltarlo per delle ore e continuare a precipitare attraverso lo specchio e magari rincontrare tutti quegli amici comuni e preziosi che hanno accompagnato ed illuminato le nostre vite e non ci sono più, ma che qui, forse solo qui, si possono vedere, indossando speciali occhiali inventati da Luigi per l’occasione, che si muovono in questa casa magica e speciale che deve assolutamente essere salvata!