«Ho passato ore a discutere con Luigi Di Maio o con Beppe Grillo: temo non sia servito a nulla». Domenico De Masi, da sociologo e uomo di sinistra, prova da anni a spostare il Movimento 5 Stelle sul fronte progressista. Lo ha fatto collaborando con ricerche, progetti di legge e mettendo in piedi la scuola di formazione voluta da Giuseppe Conte. Dopo la rottura tra Conte e Di Maio è abbastanza sconfortato. Pensa che la rottura avvantaggerà la destra. «Prima era probabile che Meloni avrebbe vinto le prossime elezioni – dice – Adesso è praticamente sicuro».

Professore, poco più di un anno fa diceva a questo giornale che al vertice dei 5 Stelle ci sarebbe voluto un triumvirato composto da Di Maio, Conte e Alessandro Di Battista. C’è rimasto solo Conte.
Conte e Di Maio sono gli unici politici prodotti dalla scuderia italiana negli ultimi dieci anni. Sono complementari per età, professione, formazione, stile. Avrebbero potuto formare una coppia interessante e anche vincente. Si sono sottratti l’uno all’altro e alle reciproche opportunità. Hanno perso entrambi.

Come vede i loro partiti?
Il M5S di Conte è più radicato, trova ancora un riscontro nel popolo dei 5 stelle. Si tratta di un popolo variegato ma meno trasversale di quattro anni fa, perché ha derubricato la parte destra. Salvini se ne è mangiato metà e sono passati dal 32 al 18%. Conte non parte da zero, insomma. Di Maio è più radicato tra i parlamentari e nell’establishment. Ma un pezzo della base lo considera persino un traditore. Deve darsi un profilo politico, l’atlantismo e le armi in Ucraina non lo sono. Deve dire che tipo di società vuole costruire. Né si capisce da quale visione possa distinguersi. Al massimo si distinguerà da quella dei 5 Stelle, di cui è stato capo politico.

Questa mancanza di identità riguarda quasi tutti i partiti.
Se uno legge gli statuti dei partiti scopre che dicono le stesse cose: bisogna essere bravi, belli e garbati. Il M5S ha sperimentato diverse parole d’ordine come «Uno vale uno» ma un modello di partito e società non l’ha mai delineato, anche se ci ha provato con il nuovo statuto. Conte ora ha meno oppositori interni: se ne sono andati tutti. Però deve costruire in modo il partito mattone contrapposto al mucchio di sabbia che è il movimento. Conte è un moderato, non un indignato. Non è don Milani o don Ciotti e neanche Gramsci. Però a differenza di altri nel M5S capisce cosa gli stai dicendo.

Lei ha scritto manuali di sociologia delle organizzazioni. Il M5S è passato da un modello verticistico a essere un partito sostanzialmente in mano ai gruppi parlamentari. È un’anomalia, perché se gruppi dirigenti ed eletti corrispondono tenderanno ad autoconservarsi. Conte ora prova a costruire un’organizzazione che non si esaurisce nei parlamentari. Può essere uno dei fattori che ha generato la scissione?
Ci sta perfettamente. Conte ha disegnato 15 comitati tematici, ognuno composto da cinque persone con un coordinatore. Ma questa macchina deve mettersi in moto. Chi si interessa di queste cose sa che una cosa è mettere sulla carta un’organizzazione, un’altra farla funzionare. Ci vuole formazione e capacità gestionale.

È la fine di un altro mito dei 5 Stelle: la politica a costo zero.
La politica deve essere a costo zero per i privati, ma lo stato deve finanziare un servizio indispensabile. Non prendere i soldi pubblici è stato un infantilismo come la fissazione delle auto blu o il taglio dei parlamentari. Cose senza capo né coda.

L’anno prossimo si vota con la crisi che va intensificandosi. Chi raccoglierà la rabbia della gente?
Questo è il punto focale. In Italia abbiamo 5 milioni 770 mila poveri assoluti: dispongono di meno di 2 dollari al giorno. A questi vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre dodici milioni di poveri in un paese che ha 60 milioni di abitanti e che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3 milioni e 700 mila persone prendano quel minimo reddito di cittadinanza. Non si vede un partito che si faccia carico di questa gente.

Il suo ultimo libro si intitola La felicità negata. È una critica dell’economia neoliberista che ha prodotto tutta questa disuguaglianza.
Il neoliberismo ha puntato tutto sul precariato: ciò che è precario è obbediente. Almeno fino a quando non arriva una forza rivoluzionaria. Per questo quello che è successo ai 5 stelle è un regalo a Giorgia Meloni.

Pare invece che Di Maio punti a una forza interclassista, non a rappresentare i poveri.
Ha il problema di trovare i voti. Un paio di anni fa tenne un discorso sulla terza via. Una ricetta fallimentare, come si è visto con Giddens e Blair. La situazione in tutto il mondo si va radicalizzando, non abbiamo una classe media in ascesa ma la polarizzazione sociale.

Questa terza via è affollatissima.
Di Maio cercherà di egemonizzare quell’area. È una vasca piena di squali, non credo che aspettino lui per avere un leader.

Punterebbero a riconfermare Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Dal 1991 al 2001 in Italia ci sono state le privatizzazioni. All’epoca Draghi era direttore generale del tesoro e presidente del comitato delle privatizzazioni. Fu la più grande opera di privatizzazione in Europa, più di Thatcher, perché da noi c’erano più partecipazioni statali. Eravamo l’unico paese ad avere più di 1700 aziende statali o parastatali e il più grande partito comunista d’Occidente. Eravamo molto più socialdemocratici degli scandinavi. Ciò era uno scandalo agli occhi dei neoliberisti che vincevano con Reagan e Thatcher che andava eliminato. Per farlo venne impiegato il più intelligente dei giovani economisti italiani. Rimase per quei dieci anni al tesoro, con diversi governi: quelli di Amato, Prodi e D’Alema fecero la maggior parte delle privatizzazioni. D’Alema diceva che non avevano bisogno della destra per privatizzare. Fu una grande manovra antisocialista fatta da socialisti. Adesso Draghi è riuscito a irretire Di Maio.