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Luigi Ghirri, le sue narrazioni di viaggio non sono emozioni coloristiche

Luigi Ghirri,  le sue narrazioni di viaggio non sono emozioni coloristicheFoto di Luigi Ghirri esposta a Lugano: Rimini, 1977 (new print, 2022), courtesy Eredi di Luigi Ghirri – © Eredi di Luigi Ghirri

A Lugano, Masi James Lingwood ha selezionato 140 scatti di Luigi Ghirri come «opere-oggetto» che inducono a una lettura estetizzante: in realtà progettava «lavori interi» (spesso collettivi) capaci di restituire il mondo a 360°

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

Può sembrare controverso dirlo, ma ormai Luigi Ghirri ha assunto una sua storicità. Se poi prendiamo in considerazione come dagli anni novanta è cambiato il paradigma visuale in seguito all’accelerazione avuta dalle trasformazioni sociali e tecnologiche, la distanza che ci separa dal fotografo reggiano si allunga ancora di più. Teniamo fisso il 1972, come fa James Lingwood, curatore della mostra Luigi Ghirri / Viaggi, fotografie 1970-1991 al MASI di Lugano (fino al 26 gennaio 2025), quale data d’inizio della sua attività professionale di fotografo con la sua prima personale al modenese Circolo Sette Arti Club. Dopo cinquant’anni crediamo possibile inserire anche i viaggi di Ghirri tra quelli «perduti» di cui parlò Alberto Arbasino riferendosi alla fotografia fin de siècle, il quale credette come anche la fotografia «meno deliberata e “cancelliera” e ratificatrice, può aiutarci a conservare un’illusione di sopravvivenza per i luoghi già illuminati dalla Cultura».

Senza doverci dilungare sui fotografi ottocenteschi francesi e americani che Ghirri ammirava conoscendoli a fondo, si può credere, come nel caso della Parigi di Atget o della San Francisco di Arnold Gente, che anche i luoghi fotografati da Ghirri siano la «testimonianza struggente – per citare ancora Arbasino – di fisionomie scomparse, di aspetti e caratteri spariti, di luoghi e di persone». Pertanto i suoi scatti sono da considerarsi anche per ciò che non c’è più, o meglio per ciò che andava mutando nel paesaggio italiano, da lui definito «post-industriale», e costituito da mete turistiche, italiane e straniere, da lui visitate in occasione di brevi vacanze, località alpine e sulla costa, centri storici, aree rurali padane e appenniniche.
Considerare gli scatti di Ghirri per il loro dato di realtà, significa intenderli come registrazione del cambiamento che l’«immagine mondo» andava subendo, restituito con un’«opacità indistruttibile e apparentemente incomprensibile». Non significa per nulla, quindi, inserire le sue immagini nell’ambito della fotografia sociale e della pura documentazione, piuttosto occorre sottrarlo alla dimensione artistica nella quale post mortem è stato sbalzato.

Marina di Ravenna (vintage print), courtesy Eredi di Luigi Ghirri © Eredi di Luigi Ghirri

La mostra ticinese, come le ultime che l’hanno preceduta (Fondazione MIA, Luigi Ghirri – Pensiero Paesaggio, 2016; Triennale, Luigi Ghirri – Il paesaggio dell’architettura, 2018), ricalca in parte quest’ultimo orientamento rivolto alla canonizzazione della fotografia ghirriana. Ci consente, tuttavia, di riflettere sul «fuoco di un conflitto» (Fontcuberta) – quello, sempre esistito, tra la fotografia e il museo – che si dà nell’infilata dei suoi singoli scatti trasformati ormai in maniera definitiva in opere-oggetto: la qualcosa non sorprende, ma devia dal comprendere cosa l’artista reggiano intendesse con «narrazione per immagini» e il fine ultimo del suo mestiere.

Ora, nel suo caso quest’aspetto della feticizzazione dell’immagine, operata dai processi museali di omologazione culturale, è forse più evidente perché è stato lo stesso Ghirri a spiegarci quanto ne fosse distante: «Ho cominciato a concepire tutto il mio lavoro di fotografo non più in termini di immagine singola – si legge nelle sue Lezioni (Quodlibet, 2010) – com’è nella concezione classica della fotografia di laboratorio, di committenza e della fotografia d’autore, dirette a trovare l’immagine capolavoro». Chiaro, quindi, perché egli decise di volere costruire «lavori interi», i soli in grado di restituirgli il «mondo a 360 gradi». La mostra di Lugano non coglie appieno questo aspetto centrale del pensiero fotografico di Ghirri, e nella raccolta (incompleta) in catalogo (Mack) ciò è ancora più marcato.

A tal proposito occorre ricordare che alcuni dei suoi progetti sono stati lavori collettivi, come Viaggio in Italia del 1984, proprio in questi giorni riproposto in mostra presso la sede dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi (a cura di Matteo Balduzzi, fino all’8 gennaio p.v., riedizione Quodlibet in copia anastatica): da quel libro-programma che coinvolse una ventina di fotografi tra i quali Guido Guidi e Mario Cresci (i più affini alla sua poetica), l’esposizione di Lugano ha estratto scatti famosi: Alpe di Siusi, 1979; Capri, ’81; Laguna di Orbetello, ’74. Diversi altri, però, sono stati i reportage condivisi: Capri (1983) con Mimmo Jodice e ancora Barbieri, Castella, Chiaromonte, Basilico, Fossati, Guidi, Kinold, Nori, White e Willmann (già incontrati in Viaggio in Italia); Esplorazioni sulla via Emilia (1986), un lavoro mosso dall’urgenza di Ghirri di contrastare ciò che definì l’«editing visivo del mondo esterno». Il libro tradotto in mostra toccò, tra l’86 e l’87, molte città e capitali europee. Illustrava, con immagini dei luoghi attraversati dalla consolare romana, il tema della capacità totalizzante che la tecnologia possiede per rappresentare il mondo. Collegato al suo precedente progetto Kodachrome (1969), continuava a interrogarsi intorno agli eccessi scaturiti con la prima fotografia della Terra effettuata dallo spazio e sulla capacità di sapere ancora leggere il «nostro esterno».

I numerosi viaggi effettuati per fotografare i luoghi facilmente raggiungibili dalla sua casa di Formigine, Ghirri li intraprese quale rimedio per la «riattivazione dei circuiti dell’attenzione» sovvertiti dalla velocità assunta dalla comunicazione visiva. Considerava la fotografia ancora il migliore antidoto capace di far ragionare sul «mostruoso e sterminato territorio dell’analogo» disseminato fuori delle nostre città: padroneggiare la luce e l’inquadratura, era la sola peculiare abilità per lui disponibile perché lo sguardo trovasse un «momento di pausa».

Le circa centoquaranta immagini selezionate per la mostra di Lugano e distribuite in modo rapsodico secondo accostamenti poco congruenti, rendono scarsamente leggibile questa intenzionalità della ricerca di Ghirri, il quale prima delle «emozioni coloristiche», della reiterazione stilistica e della rincorsa «maniacale» della forma, si preoccupò di fermare lo sguardo sul vuoto, quale necessità per «equilibrare» il caos che l’attorniava e che continua con insistenza a stordirci. Gianni Celati ha ricordato come lui «facesse una pulizia nello sguardo». Per questo la scelta del soggetto era fondamentale: più era circoscritto, più ne era soddisfatto. Alcune delle fotografie esposte marcano questa intenzionalità: una spiaggia con le sue povere attrezzature ritratta fuori stagione o prima dell’arrivo dei bagnanti (Marina di Ravenna, 1972); l’«atlante tridimensionale» del parco «Italia in Miniatura» (Rimini, ’77); i ripiani della sua libreria con poggiate cartoline e piccoli oggetti davanti le file dei libri (Identikit, ’79), per proseguire, nella graduale riduzione fisica del soggetto, con la superficie sferica del mappamondo dove si posa una mano prima che il suo obiettivo macro inizi a inquadrare oceani e paesi (Atlante, ’73).

Ancora Celati riferisce che Ghirri considerava le fotografie «solo immagini per ricordare qualcosa, appunti da mettere in un album». Era il suo modo di combattere l’«anestesia dello sguardo» che percepiva in chi accomunava la fotografia con una pratica artistica. Volle sempre tenersi distante da una simile tendenza, anche se il destino ha consegnato la sua opera a una lettura estetizzante, con una schiera numerosa di emulatori. Qui a Lugano Lingwood, riferendosi a fotografi del paesaggio statunitensi come Stephen Shore o Robert Adams, avvicina Ghirri ai ricercatori di «forme simboliche» e ai produttori di «shock percettivi». Al termine del percorso espositivo, però, davanti alla fotografia, somigliante a un monocromo, Monticelli (1987), nella quale è ritratta di spalle la sagoma di un curando all’interno delle terme parmigiane immerse nella densità del vapore, si fa sorpresa la forma naturale e semplice del suo sguardo che non ha confronti. Dopo lunghe stagioni di calme osservazioni, alla fine cercava l’invisibile per sentire «il respiro della terra».

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