La Commissione Ue cammina sulle uova e moltiplica la prudenza nel proporre agli stati membri l’adozione di un Certificato digitale verde, che dovrebbe permettere di tornare al rispetto della libera circolazione nella Ue, una delle «quattro libertà» oggi fortemente limitate, nel disordine di decisioni nazionali non omogenee, mentre per di più perdura e anzi si aggrava la penuria di vaccini, resa più drammatica dalla sospensione a valanga dell’AstraZeneca.

IERI, LA COMMISSIONE, che evita il termine troppo controverso di “passaporto”, ha avanzato delle proposte, che saranno sottoposte al Consiglio europeo del 25 marzo (adozione a maggioranza qualificata) e poi presentate al Parlamento europeo. «Approccio coordinato» e «una politica equilibrata» suggerisce Bruxelles, «in vista dell’eliminazione progressiva delle restrizioni». Il certificato digitale verde (“verde” perché riprende le “vie verdi” aperte ai camion un anno fa all’epoca del primo lockdown, per evitare il blocco del trasporto merci) dovrà contenere indicazioni sulla vaccinazione (marca del vaccino, data dell’iniezione), ma anche su un test recente negativo e sull’immunità per chi ha contratto il Covid. Il certificato dovrebbe essere pronto «a metà giugno», dovrà essere redatto nella lingua del paese di provenienza e in inglese, sarà «gratuito», con un Qr per velocizzare i controlli, preciserà la compatibilità con certificati emessi da paesi terzi. L’obiettivo è tornare alla libera circolazione «sulla base di misure trasparenti e di una mutua fiducia totale», ha spiegato la commissaria alla Salute, Stella Kyriakides.

La Commissione propone un quadro generale che gli stati saranno obbligati ad adottare, ma ogni paese deciderà quali diritti accordare: quali vaccini saranno accettati? Per la Commissione sono quelli autorizzati dalla Ue (oggi 4), ma nulla impedisce a uno stato membro di accettarne altri (per esempio quello russo o cinese). La Commissione auspica un quadro europeo comune per le restrizioni, strategie comuni per i test e il tracing. Ma il certificato non dovrà trasformarsi in una «precondizione» per la libera circolazione né in un obbligo per accedere ai trasporti. Il pass del resto non potrà garantire dall’obbligo di una quarantena, se uno stato l’impone, la Commissione chiede solo che le regole vengano comunicate almeno con 3 giorni di anticipo sull’entrata in vigore.

LA PROPOSTA SUSCITA già molte perplessità. Germania e Olanda vogliono evitare che il certificato diventi uno strumento per armonizzare le regole alle frontiere, che restano di competenza nazionale. I paesi turistici del sud, invece, hanno fretta: la Grecia (che ha fatto sapere che accoglierà anche chi è vaccinato con Sputnik, non ancora approvato dall’Agenzia europea del farmaco) e Cipro hanno già concluso un accordo con Israele, per poter accogliere i turisti, Danimarca e Svezia hanno già un certificato digitale.

Il gruppo S&D mette in guardia: appoggia l’idea del certificato, ma insiste sulla protezione dei dati e non è convinto dell’impegno di Bruxelles a garantire un «altissimo livello» evitando un data-base a livello Ue. Per il verde Yannick Jadot, a questo stadio, con solo il 9% degli europei vaccinati, è «discriminatorio».

In Francia, un sondaggio fatto dal Cese (Consiglio economico, sociale, ambientale) su base volontaria rivela che più del 70% è contrario a un pass a uso interno, per ristoranti e spettacoli, mentre è maggiormente accettato per le frontiere. Ci sono problemi etici, la polemica nella Ue è simile a quella che esiste negli Usa.

L’OMS PRECISA: «Un certificato di immunità, anche quando è disponibile e sicuro, non deve mai essere usato come la principale strategia per ridurre gli effetti della pandemia del Covid». C’è poi il problema non secondario delle eventuali frodi. Ci sono già stati casi di falsi test all’aeroporto di Roissy, per esempio (venduti tra 150 e 300 euro), c’è il ricordo negativo del caos dei test fasulli dell’Aids anni fa.

LA PRESIDENTE della Commissione, Ursula von der Leyen, ieri ha alzato il tono contro le case farmaceutiche avanzando l’ipotesi di restringere l’export di dosi prodotte nella Ue verso paesi che hanno un tasso di vaccinazione più alto dell’Europa (Israele, Cile, Usa, Emirates, Bahrein, Serbia, Qatar, Turchia, Marocco).

Ma l’attacco più duro è stato contro i paesi che rifiutano di condividere i vaccini: il bersaglio è la Gran Bretagna, numero uno della destinazione dell’export europeo di dosi – 10 milioni nelle ultime sei settimane – che però non rispetta la «reciprocità» (nessuna dose prodotta in Gran Bretagna arrivata nella Ue nello stesso periodo). Nelle ultime sei settimane, la Ue ha esportato 41 milioni di dosi verso 33 paesi.

La Ue sostiene la cooperazione internazionale sui vaccini (in primo luogo con il meccanismo Covax per i paesi poveri), ma questa è «una strada a due direzioni» tra paesi produttori di vaccini, ha insistito von der Leyen. Emmanuel Macron appoggia il principio di «reciprocità».

La Gran Bretagna ha reagito ieri con virulenza sulla sospensione di AstraZeneca in una quindicina di paesi Ue. Governo, agenzie sanitarie, comunità scientifica hanno difeso il vaccino di Oxford, con cui sono già stati vaccinati 11milioni di britannici. «È sicuro e funzione benissimo» per il premier Boris Johnson. «Posso dire molto chiaramente che il regolatore britannico dei vaccini, l’agenzia europea dei medicinali, l’Oms hanno detto che il vaccino AstraZeneca è sicuro» ha insistito il ministro degli Esteri, Dominic Raab. La Gran Bretagna ricorda che sono state trovate tra le 3 e le 6 anomalie su 1.000 vaccini, quindi la sospensione è «sorprendente», per Londra «il principio di precauzione uccide la Ue».

PROSEGUE INOLTRE la polemica sulla distribuzione dei vaccini nella Ue. Martedì, sei primi ministri riuniti a Vienna – Austria, Bulgaria, Croazia, Lettonia, Repubblica ceca e Slovacchia – hanno chiesto un «correttivo» a Bruxelles nel meccanismo di ripartizione delle dosi, per evitare, ha detto il primo ministro austriaco Sebastian Kurz, che «alcuni paesi abbiano vaccinato tutti a metà maggio e altri dovranno aspettare altre 6-10 settimane». Il primo ministro bulgaro, Boris Borissov, ha parlato di «ingiustizia» perché il principio di proporzionalità non sarebbe stato rispettato, ma ha dimenticato di ricordare che Sofia ha ordinato per esempio solo 12 milioni di dosi di Pfizer e Moderna (più cari e con una logistica complicata) rispetto ai 35 milioni che le erano destinati. In Austria ci sono state dimissioni forzate al ministero della Sanità, per errori nelle ordinazioni.