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Meidner, la grande cometa o la vicina ecatombe?

Meidner, la grande cometa o la vicina ecatombe?Ludwig Meidner, «Apokalyptische Stadt», 1912, Westfälisches Landesmuseum Münster

Le immagini della guerra: Ludwig Meidner Nella torrida estate berlinese del 1912, il pittore tedesco, intrinseco di «Der Sturm», «previde»: con affilati e tremolanti paesaggi apocalittici

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

«Per due ragioni la definizione ‘Espressionismo’ suona spesso inadeguata e infondata: da un lato, non significa molto più di una categoria artistica che è sempre esistita e, dall’altro, è troppo superficiale e non dice nulla, ad esempio, di Marc, Lehmbruck, Kokoschka e Klee – non è insomma utilizzabile come parola-ombrello per modernismo – ; nonostante tutto ciò, esiste una figura fra gli artisti più rilevanti di oggi il cui dinamismo davvero fonetico della parola ci spinge a chiamarlo ‘espressionista’: Ludwig Meidner. Tutto quello che fa è espressione, sfogo, esplosione».

Chi sta elaborando questa posizione critica è un giovane ebreo berlinese, Willi Wolfradt, che all’altezza del 1920 è ancora impegnato negli studi di storia dell’arte. L’anno dopo avrebbe dato alle stampe la prima monografia su George Grosz, più giovane di lui solamente di un anno. I due erano figli della fagocitante metropoli tedesca, e poteva apparire avvolgente il partecipare a un brulicare di cinema, cabaret, teatri e incontri all’epoca della Repubblica di Weimar. Ma l’artista di cui parliamo proveniva da un’altra temperie – la scuola d’arte a Breslavia, i natali in un piccolo villaggio della Slesia –, eppure si era guadagnato, e vedremo come, questa collocazione critica di un certo riguardo.
D’altronde queste prime sistematizzazioni critiche sui giovani tedeschi del ’20, che apparivano in una miriade di riviste, approfittavano di decenni di più silenziose incubazioni. Dobbiamo infatti fare un passo indietro, per ripercorrere la vicenda di Meidner, e ritornare intanto al 1905, quando a ventuno anni approda a Berlino. L’opposizione a due genitori, e a una cultura ebraica che prevede innanzitutto il conseguimento di un solido destino professionale, era forse proseguita non appena il giovane si era ritrovato in tasca un po’ di denaro. Lo aveva speso per andarsi a perfezionare a Parigi per un annetto, fiancheggiando gli artisti dell’Académie Julian. L’anonimato e la povertà sarebbero durati ancora, e dovette contare qualcosa il supporto economico offerto da Max Beckmann, suo coetaneo.

Un passaggio decisivo per Meidner è l’apertura di una galleria, che avrebbe presto assunto un ruolo di apripista per l’introduzione del linguaggio delle avanguardie a Berlino. Si chiamava Der Sturm ed era stata fondata da Herwarth Walden, musicista, intellettuale e critico d’arte che si ispirava alla «Voce» per le sue sperimentazioni, di gallerista e di editore di una rivista omonima. Boccioni, Carrà, Russolo e Severini passano così sotto gli occhi avidi di chi si forma in città nella primavera del ’12: è la seconda mostra di Der Sturm, alla prima, antecedente di un mese, si vedevano Braque e Delaunay, Kirchner, Marc e Pechstein.

Per Meidner, l’estate in cui tutto cambia è questa qui, quella del ’12, quella dei ventott’anni. Avrebbe ricordato così, sei anni dopo, gli effetti di una calura che anche a Berlino possono essere notevoli: «scaricavo le mie ossessioni sulle tele giorno e notte – giorni del Giudizio, fine del mondo e patiboli di teschi, perché in quei giorni la grande tempesta universale stava già mostrando i suoi denti e costruendo la sua abbagliante ombra gialla dietro al mio pennello tremolante». Come in seguito a una metamorfosi repentina, di chi ha assorbito da poco il meglio di un momento irripetibile per sé e per gli altri, affiora improvvisamente uno stile affilato e nutrito di visioni aggressive nei confronti di una Storia che pare ostile, oltre che scomposta dai prismi cubo-futuristi, ma che si vuole a tutti i costi interpretare con il coraggio del ‘contropelo’ benjaminiano.

C’è un dipinto emblematico di Meidner, proprio del ’12, oggi è alla Neue Nationalgalerie di Berlino, e di recente è stato restaurato con grande cura e attenzione mediatica. Come anche altri dipinti di questi anni, la tela è sfruttata sui due lati, segno non solo di povertà di mezzi. La rabbia degli uomini con le bandiere rosse sale sulle barricate, ma lo spettacolo cambia se si affronta l’altro versante. Un uomo nudo in un campo in primo piano dorme ignaro di quel che accade alle sue spalle: l’apocalisse genera esplosioni in case arroccate su colline, il cielo non è più quello di prima. I miracoli non sembrano più contemplabili e non si può ancora parlare di guerra.

Si è cercato di spiegare la produzione apocalittica del ’12 con una serie di eventi precedenti: l’apparizione nei cieli della grande cometa del 1910, la crisi di Agadir, che vide definitivamente incrinarsi i rapporti fra Francia e Germania nel 1911, o la fatidica faccenda del Titanic. Per i corpi rannicchiati dei senza tetto, raffigurati in quadro che è al Museo di Essen, Meidner formula qualche residua speranza, confezionando un cielo schiarito da possibili albe.

Oltre ai dipinti, le scene apocalittiche conoscono diffusione tramite una serie di incisioni, sul numero di novembre della «Sturm» – non ci siamo ancora spinti oltre il ’12! – ne compare una e nello stesso mese, per un paio di settimane, le stampe vanno in mostra. Ricorderà così quel frangente Meidner: «Ho fondato il gruppo “I patetici” con due compagni e abbiamo fatto la prima mostra sotto questa etichetta a Berlino, nell’autunno dello stesso anno»: gli altri due componenti del gruppo sono Jakob Steinhardt e Richard Janthur, ma la formazione non è destinata a durare, si scoglie dopo la prima apparizione pubblica. I tre avevano quantomeno in comune un’origine ebraica e i villaggi che avevano lasciato per acculturarsi sono probabilmente molto simili, nelle sconfinate distese a est di Berlino.

Meidner arriva al triste appuntamento dell’agosto del ’14 – quando la Germania dichiara guerra alla Francia e alla Russia – passando attraverso qualche segno di rinvenimento rispetto alle prove del suo anno di grazia. La città è sempre un caotico assemblaggio di irrazionalismo e minacce, ma iniziano a serpeggiare autoritratti ricomposti, incastonati nelle strade o spiegazioni ai disastri più plausibili delle apocalissi, come incendi o raid aerei. Quasi come un tema ritrovato salubre, l’interesse per la dimensione urbana sfocia in uno scritto di Meidner affidato alla rivista «Kunst und Künstler», pubblicato nel ’14, che funziona da anticamera rispetto alle incisioni a punta secca dedicate alla guerra.

Ora cannoni impazziti e scheletri sghignazzanti occupano il campo, le fughe dalle case si fanno più improvvisate: c’è di mezzo una realtà che ha definitivamente sostituito la fantasia. Meidner vede tutti i muscoli di un corpo macilento, scopre la fame di altri, i denti che mordono le pagnotte diventate rancide e gli occhi che osservano i piatti ormai vuoti sono cariati o commossi. Queste acquetinte, ricavate da disegni a penna inchiostrati, raggiungono l’esito più alto con i condannati all’esilio, ma siamo già vicini al rifugio che l’artista troverà davanti all’atrocità di cui si è fatto testimone. Meidner la guerra l’ha vista perché ha fatto da interprete per l’esercito tedesco – i trascorsi in Francia vengono messi a frutto anche così – ma non sembra reggere all’urto, definirà i cinque anni dal ’12 al ’17 «un vicolo cieco». Per qualche anno ancora, se si scorrono le sue incisioni, i suoi poveri guardano il cielo sperando in qualche intervento messianico, ma presto si trasformano in rabbini sgonfiati dal crollo di tutte le speranze.

L’ultimo «paesaggio apocalittico» – la definizione è tardiva e proviene dal mondo del mercato – è del ’16, negli anni venti arriva una forma di precaria stabilità, grazie a qualche mostra e a un incarico di insegnamento. Ma dal punto di vista artistico gli ultimi fuochi sono trascorsi: la religione ebraica inizia a ottenebrare, con le sue risposte, la vena degli anni d’oro. Neanche a dirlo, saranno le persecuzioni naziste a stroncarlo, a costringerlo all’esilio a Londra, e nel ’63, rientrato in Germania da dieci anni, arriva la prima retrospettiva. Oggi, a ripetere le solite beffe per artisti vissuti in condizioni di indigenza, arrivano cifre stratosferiche, come i quattordici milioni di dollari spesi a un’asta a New York, da Sotheby’s nel 2018, per un altro dipinto bifronte. Sul davanti il fuoco invade le città e si scappa, ancora una volta; ma sul retro c’è un uomo che legge serafico, bellissimo, e la giacca è di un blu tanto fiducioso nella vita che potrebbe venire dalla Danza di Matisse.

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