Cultura

Ludwig, il bambino della malinconia

Ludwig, il bambino  della malinconiaDiego Marcon, «Ludwig», 2018 (still), © Diego Marcon, courtesy Sadie Coles HQ, London

MOSTRE Diego Marcon per i venti anni della Fondazione Trussardi. Fino al 30 giugno, l’animazione dell’artista sarà al Teatro Gerolamo di Milano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 giugno 2023

Un tempo su questo palcoscenico davano spettacolo le meravigliose marionette dei fratelli Colla, per il divertimento e la felicità dei bambini. Oggi le dinamiche si sono ribaltate: il palco è occupato da un grande schermo sul quale un bambino, con costanza ossessiva, rovescia il suo mal di vivere su una platea adulta, smarrita e ormai poco allenata a relazionarsi con la condizione dell’infanzia.

IL PROTAGONISTA di questa performance si chiama Ludwig ed è figlio dell’immaginazione di Diego Marcon, artista invitato da Fondazione Trussardi per questa personale allestita in occasione dei venti anni di attività della fondazione stessa. La location è quella emozionante e così densa di memoria del Teatro Gerolamo di Milano, una Scala in formato bonsai. Ludwig, come pure il contesto oscuro in cui si trova, è stato realizzato in computer-generated imagery, o Cgi, animazioni create tramite software di computer grafica. Viene sballonzolato come se si trovasse nella stiva di una nave in tempesta; per fare luce accende un fiammifero e nel breve tempo della fiammella canta la sua dolorosa litania: «Dio, come sono stanco mi sento proprio giù/ Vorrei tirar le cuoia e non pensarci più…»: l’aria scritta dall’artista e composta da Federico Chiari, è interpretata da un bambino del coro delle voci bianche della Scala.

Alla fine, il fiammifero gli brucia le dita e sul suo «ahi» la scena si schianta di nuovo nel buio. L’andamento è insieme ipnotico e lacerante: si resta feriti assistendo al contrasto tra quella voce candida e il contenuto così lucido e disperante della sua nenia. C’è un che di irrimediabile che trova riscontro in un’altra opera di Marcon in mostra, Il malatino, un’animazione in cui un bambino febbricitante respira a fatica nel letto, fasciato dalle coperte. Sono piccole creature sulle quali si catalizza tutta la malinconia del mondo, quasi dei capri espiatori, e che per questo lasciano una scia di tenerezza in noi, testimoni del loro smarrimento.

È DAL 2014 CHE L’ARTISTA varesino (è nato a Busto Arsizio nel 1985) lavora attorno a questi personaggi animati, emblemi di uno spaesamento senza più ancoraggi. Il primo era stato Dick the Stick, un soldatino estraniato dalla routine della vita militare, occupato a lucidarsi gli scarponi mentre la voce dell’artista recita un ritornello di Georges Perec: «To the North, nothing. To the South, nothing. To the East, nothing. To the West, nothing. In the center, nothing». Nel 2017 con Monelle aveva ambientato negli spazi della Casa del Fascio di Terragni a Como un video girato in 35mm in cui bellissime bambine addormentate sono visitate da personaggi ripugnanti, come se anche il mondo dei sogni risultasse irrimediabilmente contaminato dalla deriva del mondo reale.
«I miei sono personaggi esausti», dice Marcon. Esausti al punto di precludersi ogni enfatizzazione tragica della propria condizione. Sono anti eroi e «soccombenti», proprio come tanti personaggi di Thomas Bernhard, il grande scrittore nel quale Marcon si rispecchia: non a caso Dramoletti, il titolo della mostra milanese, curata dal direttore della Fondazione Trussardi Massimiliano Gioni, è ripreso da quello che l’autore austriaco aveva dato alla serie di testi brevi scritti per il teatro.
Si ritrova un’atmosfera alla Bernhard anche nel video Parent’s Room che aveva suscitato molta impressione alla Biennale di Venezia dello scorso anno e qui riproposto negli spazi sopra il teatro. L’impassibilità degli attori che indossano maschere con le loro stesse sembianze, rende ancor più perturbante la violenza della loro narrazione. È come un teatro della crudeltà, bloccato dentro una situazione gelidamente surreale.

L’ARTE DI MARCON TROVA indubbiamente la sua forza in questa coerente determinazione nel non concedere mai sconti, di esprimere una visione senza appello della condizione umana, all’interno della quale anche l’arte «suona come impresa piuttosto patetica». Eppure quando si entra nel teatrino milanese e si è investiti dall’onda d’urto struggente della cantilena di Ludwig, ragazzino naufrago dallo sguardo così lucido e doloroso sulla vita, scattano altre sensazioni. La sua è un’implorazione che arriva al cuore del presente e scuote i pensieri di chi l’ascolta. Si rivolge a un «Dio» che si confida essere disponibile e in ascolto anche davanti ad una richiesta come quella di «tirar le cuoia» e si chiude con un imprevisto «eppur…», che passa quasi inascoltato perché strozzato dall’esplosione di un lampo. Pur tra gli incubi che la abitano, l’arte per Marcon resta una partita aperta.

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