Lucy non è più l’unica
Festival della mente Un'intervista al paleontologo Giorgio Manzi, ospite a Sarzana per la rassegna che si svolgerà dal 1 al 3 settembre. «Ormai è emersa una nuova interpretazione dell’evoluzione umana che Stephen Jay Gould definiva 'a cespuglio', anche se forse è più appropriata l’immagine di un albero frondoso»
Festival della mente Un'intervista al paleontologo Giorgio Manzi, ospite a Sarzana per la rassegna che si svolgerà dal 1 al 3 settembre. «Ormai è emersa una nuova interpretazione dell’evoluzione umana che Stephen Jay Gould definiva 'a cespuglio', anche se forse è più appropriata l’immagine di un albero frondoso»
Il Festival della mente di Sarzana (dal primo al 3 settembre) quest’anno seguirà il filo conduttore della rete, «intesa come insieme di relazioni umane al web, dalla rete della solidarietà alle reti neurali, dalla rete televisiva a quella calcistica».
Su questo tema, a Sarzana si esprimerà anche Giorgio Manzi, professore di paleontologia alla Sapienza di Roma. Manzi è uno dei più importanti studiosi a livello internazionale dell’evoluzione del genere Homo, cui ha dedicato ricerche in moltissimi siti italiani ed esteri. Nel suo caso, la «rete» sta a indicare il complesso di relazioni tra le varie specie di ominidi che ci hanno preceduto. Un sistema che, man mano che le conoscenze avanzano, si fa sempre più intricato. La paleontologia, disciplina spesso ritenuta «polverosa», è invece un campo in piena effervescenza, perché le scoperte recenti mettono in crisi molti luoghi comuni diffusi sulla comparsa della nostra specie sulla Terra. Lo testimonia il titolo del recente saggio di Giorgio Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, in uscita per la casa editrice Il Mulino proprio in questi giorni.
Lei ha parlato di un «cambio di paradigma» in corso nella paleontologia umana. A cosa voleva riferirsi?
Fino agli anni Settanta, dominava una visione lineare dell’evoluzione. Si riteneva che un’unica catena evolutiva legasse «Lucy», cioè il fossile di una femmina di Australopiteco di tre milioni di anni fa, a Homo sapiens. Ma questo modello non spiega le evidenze fornite dai fossili. Perciò, è emersa una nuova interpretazione dell’evoluzione umana che Stephen Jay Gould definiva «a cespuglio», anche se forse è più appropriata l’immagine di un «albero frondoso». Vi sarebbero state molte linee evolutive che si sono parzialmente sovrapposte, estinte e incrociate e che, per quanto riguarda il nostro «ramo», hanno condotto all’attuale egemonia di Homo sapiens.
Oltre ai nuovi dati, cosa ha favorito questo cambio di paradigma?
Gould ha contribuito molto a introdurre in antropologia il pensiero della complessità. L’idea, cioè, che i processi naturali non seguano necessariamente percorsi graduali e lineari, ma possano procedere per «equilibri punteggiati», periodi di quiete alternati a fasi di repentina evoluzione. Forse non è un caso che queste teorie abbiano trovato terreno fertile negli anni Settanta, così inquieti e attraversati da un vento di novità che introdusse una inconsueta visione del mondo, dalla politica alla cultura.
Effettivamente, l’idea che vi fosse un legame unico e diretto da Lucy a noi era rassicurante, e non troppo diverso dal racconto di Adamo ed Eva. Proprio le vostre ricerche, fino alle ultime realizzate nel sito tanzaniano di Laetoli in collaborazione con il gruppo di Marco Cherin dell’Università di Perugia, stanno abbattendo gradualmente questo immaginario…
A Lucy sono state attribuite molte caratteristiche dell’uomo moderno, come l’organizzazione sociale fondata sulla famiglia nucleare, sulla base delle prime impronte ritrovate negli anni Settanta. Altre sequenze di impronte, scoperte in anni più recenti, raccontano una storia apparentemente diversa. Abbiamo osservato il «dimorfismo sessuale», cioè dimensioni corporee diverse tra maschi e femmine. In altri primati, questa caratteristica corrisponde a popolazioni organizzate in «harem», con un maschio dominante su molte femmine. È il caso dei gorilla, per esempio. Altro che famigliola.
Secondo le teorie più recenti, all’incirca centomila anni fa nel mondo convivevano cinque specie umane diverse. Perché fu proprio Homo sapiens a conquistare l’egemonia?
Homo sapiens è entrato in competizione con le altre specie. Le ricerche sulla selezione naturale ci dicono che quando due specie occupano la stessa nicchia ecologica, cioè vivono nella stessa area condividendo prede e predatori, una delle due specie è destinata a prevalere. Tuttavia, non è chiaro perché proprio l’Homo sapiens abbia prevalso sui Neanderthal, visto che i cervelli delle due specie non differivano molto per volume.
Secondo gli archeologi che hanno studiato i siti mediorientali in cui le due specie hanno convissuto abbastanza a lungo, vi sono alcune differenze che permettono di distinguere i manufatti di una specie rispetto all’altra. Altri, come Francesco D’Orrico, uno dei migliori al mondo che lavora all’Università di Bordeaux, osservano una grande differenza nella quantità di ritrovamenti di manufatti non utilitaristici, come ornamenti o pitture, attribuiti a Homo sapiens e Neanderthal. Questo potrebbe essere messo in relazione alle differenze nel cranio delle due specie. Anche se il volume era lo stesso, abbiamo rilevato disparità morfologiche che potrebbero corrispondere allo sviluppo di diverse funzioni cerebrali, magari proprio quelle che favoriscono una dissimile capacità di maneggiare simboli.
L’attuale egemonia dell’Homo sapiens è da considerare definitiva, o altre specie umane potrebbero fare la loro comparsa sulla Terra prossimamente?
Cambiamenti macroevolutivi, come la nascita di nuove specie, possono avvenire in piccole popolazioni isolate dal resto della specie. Non è davvero il caso nostro, che invece stiamo occupando l’intero pianeta con una sovrappopolazione davvero eccessiva per le risorse disponibili. Per la comparsa di nuove specie sarebbe necessario un cataclisma planetario, o una guerra mondiale distruttiva, in grado di decimare l’umanità e sparpagliarla in piccole comunità. Anche con l’attuale allarme per i mutamenti climatici in corso, è uno scenario da fantascienza.
In molte discipline scientifiche oggi si invoca una maggiore condivisione dei dati tra gli scienziati per favorire lo scambio e il progresso delle conoscenze. È un tema attuale anche in paleontologia, dove i fossili vengono spesso scoperti in zone poco accessibili, con un’intrinseca difficoltà di circolazione dei reperti?
Negli ultimi anni, le tecnologie digitali potrebbero favorire molto più di prima la circolazione delle informazioni. Proprio in questi giorni, nel comitato scientifico dell’American Journal of Physical Anthropology (la più importante rivista in questo campo) stiamo discutendo se rendere obbligatoria la diffusione dei dati grezzi su cui si basano le ricerche pubblicate, o limitarsi a raccomandarla. Sta prevalendo quest’ultima linea più moderata, perché la scoperta di un fossile richiede anni di lavoro e di studio, ed è giusto tutelare almeno per un certo periodo il diritto dei paleontologi di studiare i fossili al riparo della concorrenza. La condivisione immediata vanificherebbe il lavoro di anni, e non è giusto.
Molte delle scoperte più recenti in paleontologia hanno richiesto l’uso di microscopi ad elevata risoluzione, analisi statistiche dei dati molto raffinate, tecniche di sequenziamento genetico, persino acceleratori di particelle ad alte energie. Quanti scienziati convivono in un solo paleontologo?
Gli strumenti a disposizione si sono moltiplicati e richiedono conoscenze specialistiche molto diverse tra loro. Ma difficilmente un paleontologo può padroneggiarle tutte. Dunque, nella fase attuale della paleontologia è diventato fondamentale il lavoro di squadra, l’ibridazione delle risorse e delle conoscenze, al di là degli steccati disciplinari.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento