Éléonore Saintagnan, campeggio per l’anima
Intervista Invocando la natura misteriosa di un pesce: la cineasta belga racconta il suo film «Camping du lac»
Intervista Invocando la natura misteriosa di un pesce: la cineasta belga racconta il suo film «Camping du lac»
«Un po’ Gesù, un po’ mostro di Loch Ness». Così la regista belga Éléonore Saintagnan descrive il misterioso pesce che vive sul fondo del lago nel suo film Camping du lac. Girato in un campeggio realmente esistente in Bretagna, per lo più con gli abitanti di quella micro «comunità temporanea», è una storia sul raccontare storie, un lavoro dal tono lieve e ironico con risvolti seri. Presentato a Locarno – dove ha vinto il Premio speciale della giuria nella sezione Cineasti del presente – poi in concorso al Torino Film Festival e presto alla Woche der Kritik a Berlino, come ispirazione per Camping du lac Saintagnan cita Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini. Di sicuro c’è un’attrazione per quel legame senza nome tra umano e natura, una forma di trascendenza violentata dal capitalismo che inquina e distrugge, come il film mostra. Saintagnan si muove senza difficoltà dietro e davanti la macchina da presa – insieme al «pesce», è la protagonista – e dimostra un’attenzione all’immagine, legata alla sua carriera «altra», quella da artista visiva. Abbiamo incontrato la regista in occasione del suo passaggio a Torino, dove ci ha raccontato il processo di realizzazione del film e il contesto «reale» in cui si è svolto, in una Bretagna che tenta di negare le conseguenze degli allevamenti intensivi e delle temperature eccezionalmente alte.
Cosa rappresenta per lei il campeggio?
È un posto particolare, capita spesso che si arrivi lì, magari solo per una vacanza di pochi giorni, poi non si vuole più andare via e si finisce per rimanerci. Il fatto di non riuscire più ad andare via mi ha ricordato un film come L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, dove sono tutti a una festa che non riescono ad abbandonare. Quando ho scoperto il campeggio e ho incontrato le persone che ci vivono ero in una fase un po’ buia della mia vita, e credo che in qualche modo tutti loro abbiano qualcosa di triste al fondo dei loro cuori, ma essere lì era un modo per curarsi. C’è una grande contraddizione in quel luogo, la gente ci va per fuggire dalla città e dalla società, con l’idea di vivere in autonomia, ma accade tutto il contrario: si scambiano continuamente oggetti tra loro, prodotti o servizi, dalle uova al babysitting. Le persone che si vedono nel film abitano realmente lì, fatta eccezione per il musicista Wayne Standley, me stessa e il bambino, che è mio figlio. La persona che fa la madre abita nel villaggio accanto, ci teneva molto a questo ruolo materno, è una donna trans che nel film è una madre cisgender, di fatto è se stessa – anche nella realtà lavora in una fattoria, oltre che in una stazione radiofonica – ma con alcune differenze. Ho preso elementi esistenti ma modificandoli leggermente, volevo che il film fosse di finzione e non un documentario, e allo stesso tempo volevo che il pubblico non capisse chi è un attore e chi non lo è. È una storia immaginaria che contiene un mix di vero e falso, come la realtà.
Cosa l’ha spinta a lavorare con i non attori?
Credo che il cinema non debba essere riservato a gente bellissima che fa finta di essere povera, una cosa che si vede fin troppo. Mi manda fuori di testa, anche perché ci sono tanti che vogliono recitare e che hanno talento, mentre i circuiti cinematografici francesi affermano che il pubblico debba vedere sempre le stesse facce per «sentirsi a casa». Io non la penso così.
Come è stato trovarsi sia dietro che davanti la macchina da presa?
Mi sono affidata molto al direttore della fotografia, Michaël Capron. In precedenza avevo curato io la fotografia dei miei film, venendo dalle arti visive per me l’immagine è molto importante. Ma apprezzando molto il suo lavoro, mi sono potuta abbandonare alla camera come non avevo mai fatto prima. All’inizio ero restia ma poi è stato molto bello. Come dosare la mia presenza nel film, insieme a tante altre cose, l’ho capito solo al montaggio anche perché non abbiamo girato in ordine di svolgimento e c’è stato un approccio molto sperimentale per scegliere chi avrebbe recitato quale ruolo: è stato deciso sul momento, facendo delle prove. Di fatto ho lavorato come ad un collage.
Il film è molto ironico, anche su una questione seria come la cura dell’ambiente che viene annientata dal business. Può essere un modo valido per comunicare certi contenuti?
Direi che il film è ironico in molti modi diversi. Il primo aspetto «ironico» è che ho deciso di realizzarlo con veramente pochi soldi: quando ho iniziato, non avevo praticamente nulla. E visto che non avevo i fondi per cambiare la realtà così da farla aderire alla mia sceneggiatura, ho deciso di cambiare quest’ultima per adattarla alla realtà. Infatti abbiamo girato in due diversi laghi, e ho tagliato la città che si trova nel mezzo. La natura è atemporale, e il luogo dove abbiamo girato non è riconoscibile in maniera specifica. Potrebbe trattarsi del Canada quando dell’Asia meridionale. Per questo mi sembrava perfetto per girare una favola, perché potrebbe essere un po’ ovunque sul pianeta. Visto che realizzare film è difficile e richiede molto tempo, nel mentre mi dedico alla scultura. Prima di Camping du lac avevo lavorato a un’esposizione dove il pezzo principale era un pesce gigante che ho realizzato nelle Alpi, insieme a un artigiano del posto. Anche nella mia carriera di artista ho questa modalità di stare con le persone e creare qualcosa insieme. Così ho trovato le coordinate per il film, e l’ironia sta anche nel provare ad essere intelligenti con un contenuto già dato, piuttosto che considerarlo una catena, scelgo di trovare lì la libertà.
Il lago che si prosciuga, e la morte del pesce «magico», cosa rappresentano?
È una metafora anti capitalista. Non avevo naturalmente la possibilità di svuotare il lago ma ci ha pensato il caldo estremo, l’estate scorsa si sono toccati i 42 gradi ed è assurdo per la Bretagna. La sceneggiatura è diventata una profezia: quando abbiamo girato l’ultima scena il lago stava letteralmente evaporando sotto i nostri occhi. Chi vive lì dice che prima si sentivano centinaia di uccelli diversi, oggi solo cinque. E lo stesso è accaduto con i pesci. C’è un grande problema in quell’area legato al capitalismo industriale: ci sono degli enormi allevamenti di maiali che inquinano il mare e la terra, con prodotti chimici come il glifosato. Si è diffusa un’alga tossica che ha ucciso cani e cavalli della zona, e persino un uomo. I giornalisti che se ne interessano vengono silenziati: su una radio locale, Radio Kreizh Breizh, si è parlato di quello che stava accadendo e la persona che ha realizzato il servizio, Morgan Large, ha trovato la sua auto sabotata, volevano che avesse un incidente. Ora è sotto la protezione della polizia. Per fortuna si è comunque iniziato a parlare della diffusione dell’alga, è diventato evidente, e non si può più negare che la natura stia scomparendo. Per questo non ho potuto concludere il film in maniera positiva, nonostante noi fossimo felicissimi di essere lì insieme a creare qualcosa, il contesto fa paura. Eppure è quello che dobbiamo continuare a fare: raccontare storie insieme.
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