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Lucrezia Borgia: duchessa, donna, cristiana

Lucrezia Borgia: duchessa, donna, cristianaGiannantonio da Foligno, Lucrezia presenta a S. Maurelio, protettore di Ferrara, il figlio Ercole, 1512, Ferrara, S. Giorgio fuori le mura, pannello reliquiario di S. Maurelio

Rinascimento italiano L’epistolario ferrarese di Lucrezia Borgia, curato da Diane Ghirardo per Tre Lune: impallidisce lo stereotipo dell’avvelenatrice

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 dicembre 2020

«Come christiana benché peccatrice», Lucrezia Borgia si rivolse per lettera a papa Leone X il 22 giugno 1519 per chiedergli la benedizione dell’anima sua. Era stata l’ultima gravidanza a lasciarla in gravi condizioni e lei sentiva che ormai «era forza concedere alla natura». Con questo messaggio si chiude anche il gran volume delle lettere di Lucrezia che si deve all’investimento intellettuale e umano di una studiosa di grande qualità, da più di vent’anni attiva nel laboratorio di Lucrezia: Lucrezia Borgia Lettere 1494-1519, a cura di Diane Ghirardo, con la collaborazione di Enrico Angiolini, Direzione generale Archivi, Tre Lune Edizioni, pp. XLI-755, e 38,00). Da ricordare il suo lavoro su Lucrezia Borgia imprenditrice e l’accurata edizione critica dell’inventario degli enormi tesori che Lucrezia portò seco come dote quando fece il suo ingresso trionfale a Ferrara.
Adesso è la volta delle 727 lettere che di Lucrezia ci sono rimaste. Sono state raccolte da più sedi e ora, decrittate quelle in cifra e tutte fittamente arredate di note filologiche ed erudite, si offrono alla lettura di chi vuole conoscere meglio una delle donne più celebri del passato. Occuparsene non è cosa da chi vuol passeggiare piacevolmente nei giardini della storia: vuol dire misurarsi con la realtà e l’immagine di una donna che fu oggetto di dicerie infamanti dei suoi contemporanei, coinvolta nella leggenda nera del papato di Alessandro Borgia e delle imprese del figlio Cesare. È quello che ha voluto fare Diane Ghirardo. La sua ampia introduzione rilegge la biografia della protagonista offrendone un ritratto che sostituisce alla incestuosa esperta di veleni una figura di madre e moglie virtuosa, cristianamente devota, ma anche donna di grandi capacità politiche e amministrative. E va detto che l’aiuta in questo la sorte che ha selezionato dell’epistolario di Lucrezia praticamente solo la parte ferrarese. È come se attraverso queste lettere sfumassero in prospettiva la Roma dei Borgia e i toni crudi della vita in quell’appartamento affrescato con divinità egizie e il taurino totem di famiglia che scandalizzò Edgar Wind.
Lasciamoci dunque alle spalle le voci di cronisti del tempo romano e il secco giudizio di Francesco Guicciardini e cogliamo l’occasione per conoscere la Lucrezia ferrarese attraverso questa documentazione epistolare e lo sguardo rasserenante che Diane Ghirardo ha gettato sulla sua vita. Un’altra fonte per così dire a difesa – quella delle lettere del confessore – l’aveva pubblicata tempo fa Gabriella Zarri mettendo in risalto la quotidianità devota della duchessa. La domanda però resta aperta: qual è la vera Lucrezia? E qual è stato il Rinascimento delle donne che Joan Kelly nella sua provocatoria domanda rivolse anni fa agli storici? Perché non c’è dubbio che Lucrezia è stata la figura femminile più celebre di un certo Rinascimento, quello caro alle fantasie romantiche dell’Ottocento. Sul mare del vissuto femminile del tempo è il suo nome che spicca fra le poche abituali protagoniste, celebri per bellezza o per intelletto, sante o prostitute, nelle corti o nei conventi. Nel Rinascimento italiano il dominante potere di una casta sacerdotale e fratesca votata in teoria al celibato favorì la prostituzione e beatificò la santità. Ora, del sovrano di quella casta sacerdotale, Lucrezia fu figlia e strumento nelle mutevoli alleanze politiche che passarono più volte attraverso la cessione del suo corpo di donna. Così, alla domanda rivolta agli storici se ci sia stato un Rinascimento per le donne, la risposta potrebbe essere: sì, perché c’è una donna il cui nome si lega da un lato al Rinascimento dei veleni e degli incesti romani e dall’altro alla molto diversa corte padana di Ferrara.
La prima fase alimentò voci infamanti di cronisti e storici dell’epoca e trovò un’eco nei teatri e nella letteratura dell’Ottocento, quando lord Byron si innamorò della celebre ciocca dei suoi biondissimi capelli. Poi fu la storiografia a rimandarsi pigramente lo stereotipo dell’avvelenatrice dai molti mariti, oggetto di amori incestuosi, figlia di un papa simoniaco e sorella del Valentino – un fratello possessivo, geloso al punto da farle assassinare il marito Alfonso d’Aragona dal suo scherano Miguel de Corella, il fosco personaggio che doveva incantare Machiavelli. Anche quando nel 1939 fu la carriera letteraria di Maria Bellonci a esordire col romanzo della vita di Lucrezia, fondato più su voci altrui che su fonti dirette, ci si trovò immersi nell’ambiguità di un’epoca lontana e affascinante per una sua morale fuori misura. Ma già allora la distinzione tra la Roma borgiana e la corte ferrarese rese possibili riconoscimenti alla serietà e all’intelligenza della duchessa estense. Gli storici cattolici del dopoguerra, come Giovanni Soranzo e Gian Battista Picotti, ebbero troppo da fare col personaggio di papa Borgia per occuparsi di lei. Così la ricerca della verità documentaria su Lucrezia è rimasta a lungo silente per svegliarsi solo quando sono state le storiche a dedicarsi allo studio delle fonti disponibili. E oggi la sua figura riappare, filtrata dalle lettere e dalla netta presa di posizione di Diane Ghirardo, come quella di una donna esemplare, madre e moglie affettuosa, cristiana devota, duchessa di gran polso, conversatrice amabile coi suoi corrispondenti: una vera santarellina, ha scritto un perplesso Giulio Busi, conoscitore come nessun altro di quel mondo.
Va detto tuttavia che Lucrezia può contare tra i testimoni a suo favore nientemeno che su Ludovico Ariosto che ne elogiò ripetutamente «la beltà, la virtù, la fama onesta». Quel passato romano l’accompagnò in terra emiliana dove era giunta a cavallo col grandioso dispiegamento di seicento illustri accompagnatori e di una dote strepitosa di arredi e gioielli recata a dorso da più di ottanta muli. Fu da subito mediatrice autorevole col padre pontefice sia per il duca sia per il cognato cardinale, Ippolito d’Este. Anche quando la stella dei Borgia era giunta al tramonto non esitò a chiedere aiuto al nuovo papa per la liberazione del fratello Cesare prigioniero in Spagna. Tuttavia chi cercasse in questo epistolario tracce di ricordi e testimonianze della vita precedente si troverebbe deluso. Certo, non era questo che una duchessa poteva affidare allo scritto. La tradizione delle lettere di famiglie signorili nelle corti italiane risaliva molto addietro nel tempo e la loro ricchezza nei nostri archivi ha sempre stupito e attirato gli storici. Ma non si trattava di un genere epistolare come luogo di confidenze intime in un rapporto privato. Quelle lettere nascevano dalla necessità di curare le relazioni tra famiglie dominanti dei piccoli stati italiani, per garantirsi alleanze o almeno per intercettare per tempo nascenti ostilità, come richiedeva la natura di poteri fragili, nati da avventure personali e sempre minacciati dal mutare della fortuna.
Le lettere di Lucrezia appartengono a questa tradizione politica recandovi in più, di femminile, il carico dei doveri di ogni donna. Bisognava farsi accogliere nella famiglia del marito: da qui le letterine di obbedienza e rispetto al suocero Ercole e gli omaggi e i ringraziamenti alla cognata Isabella, la coltissima e molto supponente marchesa di Mantova. Il flusso più continuo e numeroso è offerto dalla corrispondenza col marito, spesso assente per guerre, mentre la moglie esercitava poteri ducali verso i sudditi e le municipalità delle città soggette. In questa veste Lucrezia mostra di saper usare lo stile di comando appreso a Roma: benevolo, suadente e autorevole ma all’occasione fermo e ultimativo. Del privato suo mondo di affetti e di pensieri appare ben poco, al di là di quelli seri e intensi riservati a marito e figli. In altri casi la lettera si limitava a rinviare il destinatario a ciò che il latore gli avrebbe riferito a voce, come accadde nel rapporto epistolare con Pietro Bembo conservato all’Ambrosiana, residuo di una corrispondenza amorosa ricca di cautele e di silenzi. Cristiana e peccatrice, si sentiva: ma cos’era la sua religiosità? Poco più che convenzionali le frasi sulla misericordia divina per gli esseri umani e «per gli peccati di questa nostra etade» di una lettera al marchese di Mantova. Ma è il polso di una persona di potere concreta e realistica che si avverte quando, tenendo a bada le pulsioni mistiche di suocero e cognato, impose nel 1505 alla visionaria «santa viva» Lucia Brocadelli di rientrare nell’ordine di una regola monastica. Aveva anche lei bisogno di uno spazio appartato dove respirare: e la sua scelta cadde sul convento del Corpus Domini, sacro alla lieta religiosità di Caterina Vigri. Qui volle vivere accanto alla figlia Eleonora che vi sviluppò l’amore per la musica. E qui, vicina a morire dopo l’ottavo parto, scelse di venire sepolta. La sua figura restò affidata ai versi dei poeti e alle pitture degli artisti. Poter leggere oggi le sue lettere e rendere giustizia alla sua figura è un’occasione da non perdere. Il merito va riconosciuto alla dedizione appassionata e competente di Diane Ghirardo.

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