Musica da un altro pianeta: potrebbe forse essere descritto così il percorso di Lucrecia Dalt, colombiana dedita alla sperimentazione sonora. Con il suo ultimo album ¡Ay! ha raggiunto un’eleganza inedita, stemperando l’istinto avanguardista in favore di una rilettura personalissima delle musiche radicate nella terra d’origine, bolero su tutti. Ma rimane la sensazione di trovarsi di fronte a un oggetto alieno, come anche i testi sci-fi suggeriscono. Dalt è parte della ricca line up che si esibirà quest’anno al festival C2C di Torino, da oggi fino a domenica saliranno sul palco anche l’inglese King Krule con il suo fumoso «punk jazz», e poi Flying Lotus, Yves Tumor, Caroline Polachek e molti altri, per quella che sarà in più casi la loro unica tappa italiana. Originariamente era previsto anche uno showcase dell’etichetta palestinese indipendente BLTNM, costretta a dare forfait; C2C ha deciso di non sostituirli come segno degli eventi che stanno insanguinando il Medio Oriente. Nato come Club2Club e giunto alla ventunesima edizione, il festival si è evoluto negli anni e da manifestazione incentrata sulla musica elettronica è diventato luogo di scoperta per artisti che non disdegnano il pop purché declinato in un’ottica ipercontemporanea e di ricerca. Per l’occasione abbiamo raggiunto Lucrecia Dalt al telefono; ci spiega che a Torino sarà una delle ultime possibilità per ascoltare dal vivo ¡Ay! prima di dedicarsi ad un periodo di studio che la condurrà al prossimo lavoro.

Come adatta la sua musica, piuttosto stratificata, per l’esecuzione live?

Per ogni album c’è stato un procedimento diverso, prima sul palco c’ero solo io con i sintetizzatori, la mia voce e il vocoder. Era importante per me avere una finestra aperta all’improvvisazione, non mi piace che tutto sia già prestabilito, pensavo poi molto allo spazio per capire quali suoni reagissero meglio affinché il concerto fosse arricchente come esperienza per me e per l’ascoltatore. Per il nuovo album è stato tutto un altro tipo di esperimento perché suono insieme ad un percussionista e canto più di quanto non avessi mai fatto. La preparazione è stata quindi fisica, legata alle possibilità della voce, e poi indirizzata al presentare l’album in una dimensione più energica e forse emotiva, confrontandomi comunque con un setting minimale perché non c’è basso, fiati e così via.

Il suo ultimo album «¡Ay!» contiene una riflessione sul tempo basata su un approccio archeologico e futuristico allo stesso tempo. Può spiegarla meglio?

La storia di tipo fantascientifico che ho scritto è una specie di scusa per parlare di questioni come il tempo e l’atemporalità, di quest’ultima non possiamo fare un’esperienza diretta, eccetto quei pochi che possono forse raggiungere stati di coscienza trascendenti che permettono di entrare in relazione con un ordine di realtà permanente. Il personaggio che ho inventato ci permette di vedere per un attimo noi stessi da un altro punto di vista, abbandonando le nostre costruzioni, provando persino a riderne. La scrittura è la prima cosa che è arrivata in questo processo perché è frutto di un esercizio che ho portato avanti con un mio amico filosofo. Da lì ho iniziato ad adattare la storia alla forma testo, rendendola più poetica e un po’ meno densa da un punto di vista teorico, non volevo essere troppo pesante anche se credo che siano comunque dei testi che non si trovano di frequente soprattutto nella musica latinoamericana che ho cercato di includere in questo album, in particolare il bolero, che normalmente parla di relazioni d’amore.

Che tipo di sfida è stata portare questo tipo di musiche nel contesto contemporaneo che le appartiene?

Sentivo un senso di responsabilità, anche se non volevo realizzare un tributo o lavorare nei canoni di un genere che non conosco poi così a fondo. Per me si trattava di maneggiare delle memorie diluite della musica che ascoltavo da piccola con la mia famiglia, mi interessava ritrovare quell’atmosfera piuttosto che rimanere intrappolata in delle regole troppo stringenti su come dovrebbero suonare le percussioni, quali tipi di strumenti utilizzare e così via. Mi sono bastati alcuni elementi che permettessero il processo di riconoscimento di quel tipo di musica, senza seguirla in maniera specifica, e questa è stata la sfida perché a volte mi chiedevo se quello che stavo facendo fosse giusto o meno. È stato un capitolo innovativo per me anche perché prima i miei lavori si basavano su strumentazione elettronica, mentre stavolta c’erano molti strumenti acustici che suonano per quello che sono senza venire processati.

Sono molti anni che vive a Berlino, cosa le ha dato la città da un punto di vista creativo? Trova che sia un ambiente stimolante per i musicisti indipendenti come lei?

Mi colpisce che tu me lo chieda perché in realtà sono in procinto di lasciare Berlino, e proprio perché sento che il mio ciclo lì come musicista sia esaurito. Sento la necessità di qualcosa di diverso nella mia vita, che non ha a che vedere con quello che la città può offrire in termini di cultura, possibilità, collaboratori e così via. Sono tutte cose che in questi anni mi hanno nutrito, venendo dalla Colombia dove tutto è più difficile, mi rendo conto di come la Germania mi abbia supportata in molti modi, ne sono grata ma ora è tempo di cambiare.