Luciano Erba, la parola decisiva di un poeta in minore
Novecento italiano Il nuovo fascicolo (70) di «Autografo» è dedicato a Luciano Erba, bricoleur e metafisico. Spiccano: l’uso delle rime, l’amicizia con Scheiwiller, il traduttore (Jean de Sponde, Racine, Frénaud)
Novecento italiano Il nuovo fascicolo (70) di «Autografo» è dedicato a Luciano Erba, bricoleur e metafisico. Spiccano: l’uso delle rime, l’amicizia con Scheiwiller, il traduttore (Jean de Sponde, Racine, Frénaud)
Sempre attento «agli spazi intermedi» del dire, senza mai poggiare troppo a terra o aspirare a luoghi alti, Luciano Erba ha costruito con perizia fabbrile un’opera calibrata sulla misura del raffinato acume, di originale intelligenza e duttilità versale; «un cosmo qualunque», volendo utilizzare il titolo di una sua poesia, nel contempo però personalissimo, inconfondibile. Celebrato nel 2022, anno del centenario della nascita, con un «Baobab» Mondadori in cui sono raccolte tutte le poesie (cura di Stefano Prandi, introduzione di Maurizio Cucchi), e con la riedizione de L’ippopotamo («Biblioteca d’“Autografo”», Interlinea), Erba è adesso ospite del numero 70 di «Autografo», la storica rivista fondata da Maria Corti, attualmente edita da Interlinea (pp. 187, euro 20,00).
Si tratta di un numero monografico che raccoglie i contributi della giornata di studi del 12 ottobre 2022, promossa dal Centro Manoscritti insieme al Collegio Ghislieri e all’Università di Pavia, cui hanno partecipato i maggiori esegeti del poeta. Come specificato dai curatori Pietro Benzoni e Anna Stella Poli, che firmano due interventi rispettivamente su Erba traduttore di André Frénaud e Jean Racine, il titolo del fascicolo, Luciano Erba bricoleur e metafisico, è volutamente teso alla frizione: «ammiccando a due memorabili ipostasi erbiane (“il traduttore-bricoleur” e il “tranviere metafisico”), sottolinea la natura divaricata e ossimorica della sua ricerca poetica: pronta a porsi come micro-artigianato domestico e amatoriale, ma anche, insieme, come fomite di speculazioni teoretiche ulteriori».
Lontano dal gusto per le «cose linguizzate» degli ermetici, gli esordi di Erba vibrano il La sul diapason della poesia crepuscolare. È il 1951 quando esce Linea K, lo stesso anno – così da mostrare una porzione del quadro storico in cui si inserisce il debutto erbiano – di Dietro il paesaggio di Andrea Zanzotto e di Nel centro della mano di Bartolo Cattafi, amico suo vicinissimo in quegli anni ed eletto compagno di viaggio in terra francese. La differenza è evidente: se Zanzotto esautora dall’interno la langue ermetica e Cattafi la colma di simboli fino a farla tracimare, il sapido understatement di Erba guarda piuttosto all’ironia gozzaniana, ma lo fa con una sua propria, e già formata, consapevolezza autoriale. Ecco allora un uso della rima che, innestandosi sugli esempi indimenticabili de I colloqui (basti citare «Nietzsche : camicie»), evolve inattesa, plurilingue e «falsamente derivata», facendo stridere latino e italiano come nella celebre «vili : vescovili» (Devotio moderna).
L’attenzione e il gusto per l’infrazione assumono anche un ruolo formale, giungendo a parziale risarcimento di studiati sussulti sintattici e prosodici tra parti di testo. Erba fa di molte sue clausole in rima la cifra stilistica su cui reggere una poesia sospesa per tono e forza conoscitiva «a mezzo» tra realia e iperurani: «la rima assume anche un valore strutturale laddove, e non sono pochi casi, è utilizzata, in forma baciata o meno, come segnale di chiusura del testo, con una sollecitazione dunque anche ritmica e fonica oltre che semantica e concettuale (…) Erba, soprattutto nella prima parte della sua produzione, punta sulla clausola finale per segnalare in modo più rilevato, espressivo, l’uscita dal testo, probabilmente a parziale compenso di una debole articolazione interna del componimento stesso» (Fabio Magro, «Gli ireos gialli. Tra testo e contesto»).
Infrazione è per Erba parola che si confà, parimenti, alla pratica della traduzione, quel «metodo del non-metodo» che procede attraverso variabili e mai pacifiche soluzioni (di «medietà letteraria prosaicamente declinata, se non a tratti dimessa» parla Benzoni per Racine; di «testo ibrido, straniante e senza tempo», a sua volta, Giulia Grata per Jean de Sponde). Erba bricoleur e metafisico amplifica una figura di poeta ostinatamente in minore, minimalista nelle premesse e negli esiti, che distilla preziose plaquette ridistribuite, poi, in complessi testuali stratificati che prendono infine forma di libro.
Fu, e non è un caso, Vanni Scheiwiller l’editore con il quale egli saldò un sodalizio speciale, prima di tutto umano, qui raccontato con dovizia di particolari ed escerti di lettere da Roberto Cicala, il cui contributo fa da cesura tra la parte iniziale del fascicolo, dove si discute un buon numero di inediti giovanili che dimostrano la continuità di fondo della produzione erbiana (Stefano Prandi) e, nel contempo, si tracciano le dovute linee evolutive di una poesia che copre più di mezzo secolo (Maria Antonietta Grignani); e una seconda parte che invece indaga il testo (Magro) e specifici meccanismi stilistici (Samuele Fioravanti). Si passa poi alla citata pratica della traduzione, per chiudere la serie degli interventi sul tema poesia/arti visive (Federico Milone) – e qui inevitabilmente torna il nome di Scheiwiller e della sua preziosa esperienza editoriale. Il saggio di Milone prende l’abbrivio dal rapporto tra Erba e l’«ippopittore» Gian Luigi Giovanola per poi discutere la poesia Natura naturans e l’attento lavorìo cui Erba sottopone il testo: un ininterrotto e perspicuo labor limae il cui risultato è una specie di callida levitas che mostra quanto la poesia sia prodotto consapevole, più ancora che dono.
Affermava il poeta in un’intervista apparsa nel 2004: «La parola è decisiva, sia in fase prenatale, sia in fase di suggello, anche se è vero che non si è mai finito di dire tutto quel che si ha in mente di dire (…) Il colpo di scalpello non perdona, è irreversibile. E invece la parola si può riprendere; giunto il momento di pubblicare, si può sempre ritoccare qualcosa». E concludeva: «Una poesia non è quasi mai chiusa».
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